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Da sempre l’umanità è stata obbligata a familiarizzare con la morte, incontrata con altissima frequenza. In certi periodi, tuttavia, questa ineluttabile realtà si è fatta più presente. Nel Medioevo, per esempio, carestie, epidemie, guerre, faide, duelli, esecuzioni hanno reso l’incontro con la morte quasi quotidiano. E a rischiare di morire erano, al contrario di quanto avviene oggi, soprattutto i bambini e i giovani, a causa dei molti conflitti e delle malattie che mettevano a dura prova sistemi immunitari fragili. La Morte nel Medioevo: la Nera Signora.
Il cristianesimo, a differenza delle religioni pagane antiche, aveva educato la gente a convivere più serenamente con la morte. La speranza di un riscatto, vissuta dalle persone di fede, l’aspirazione a una nuova vita oltre la morte, che ai giusti veniva promessa, rendeva l’idea della morte medesima più tollerabile e meno spaventosa. Cristo, ossia il Dio incarnato, aveva, d’altro canto, voluto condividere con l’umanità intera quella spaventosa esperienza cui invece gli altri dei, “falsi e bugiardi” sembravano sottrarsi. Gli stessi morti non erano più percepiti come repulsivi: in fondo, il cristianesimo aveva educato a venerare l’immagine del corpo di un uomo ucciso sulla croce.
Le tombe non erano motivo di vergogna ma venivano addirittura accolte dentro o in prossimità degli edifici pubblici, soprattutto quelli religiosi. Le tombe dei martiri erano, addirittura, oggetto di devozione; le loro spoglie mortali o le reliquie (termine proveniente dal latino e che significa “resti”), costituite da parti dei corpi dei santi oppure da oggetti che erano entrati in contatto con loro, erano ricercate come beni preziosi. La Morte nel Medioevo: la Nera Signora.
Nel Medioevo (ma anche nei secoli successivi) si era infatti convinti che la semplice vicinanza alle reliquie, garantisse un rapporto diretto con il soprannaturale e assicurasse una speciale protezione.
Per questo motivo, le chiese facevano quasi a gara per procacciarsi il maggior numero di reliquie, spesso nemmeno eseguendo le ricerche necessarie per assicurarsi della loro autenticità. In effetti, si ha motivo di credere che per secoli siano state venerate le povere spoglie di persone qualsiasi, scambiate (in buona fede) o spacciate (in mala fede) per quelle dei martiri o di altri autorevoli personaggi. D’altro canto, il possesso di una reliquia importante dava prestigio a una chiesa, attirava masse di pellegrini, favoriva le elemosine e i lasciti. La Morte nel Medioevo: la Nera Signora.
Le reliquie non erano, insomma, delle semplici risorse spirituali, esse costituivano dei veri e propri tesori materiali, si configuravano come investimenti. Tutto ciò alimentò un vero e proprio mercato, a tratti spregiudicato e regolato da quelle stesse regole che venivano applicate alle altre merci. A Roma, nel IX secolo, il diacono Deodato mise in piedi una fiorente impresa commerciale basata sul saccheggio delle tombe, che si supponeva (ma solo supponeva) aver accolto le spoglie dei martiri. Le presunte reliquie prelevate nei cimiteri romani venivano spedite in tutta Europa, ovunque ci fossero clienti disposti a pagarle.
Quando poi i crociati conquistarono la Terrasanta, il commercio delle reliquie conobbe una fortunatissima stagione. Dai luoghi in cui era nato, vissuto e morto Gesù, si riversò in Occidente ogni sorta di oggetto legato alle pagine evangeliche: presunti frammenti della mangiatoia della grotta di Betlemme, pietre che si giurava prelevate dal Santo Sepolcro, sassi raccolti nell’orto del Getsemani, acqua del fiume Giordano, frammenti di stoffa, schegge della croce, aculei della corona di spine, chiodi che trafissero le mani e i piedi di Cristo. Tutti, quasi certamente, falsi (ad eccezione del Santo Sepolcro in sé, ancora oggi legittimamente venerato).
Questa concezione quasi positiva della morte cristiana, accettata con rassegnazione e perfino con letizia da chi non è in peccato mortale è ben espressa nel Cantico delle Creature di Francesco d’Assisi, composto intorno al 1224, considerato il testo poetico più antico della letteratura italiana di cui si conosca l’autore. Il Cantico di Francesco è una lode a Dio attraverso le sue opere e un inno alla vita, che presuppone una visione positiva della Natura, intesa come riflesso della bontà divina.
Anche la morte è concepita da Francesco come parte integrante della vita stessa: «Laudato si’ mi’ Signore per sora nostra morte corporale, da la quale nullu / homo vivente pò scappare: guai a quelli che morrano ne le peccata / mortali; / beati quelli che trovarà ne le tue santissime voluntati, ka la morte / secunda no ‘l farrà male».
Tuttavia, soprattutto nel Basso Medioevo e ancora nel XV secolo, certi eventi percepiti come apocalittici, dalla peste trecentesca alla Guerra dei cent’anni quattrocentesca, scatenarono comprensibilmente un profondo senso collettivo di angoscia e, non di rado, di disperazione. La morte, come nel mondo antico, tornò a fare paura: una paura che la fede nel Cristo morto e risorto riuscì ad arginare con difficoltà. Non è solo la paura dell’Inferno a terrorizzare: è proprio la morte in sé a scatenare il panico.
Tale forma di terrore è ampiamente testimoniata da una ingente quantità di soggetti letterari e iconografici, diffusi ovunque in Europa, dai libri miniati ai tantissimi affreschi delle chiese o dei cimiteri.
In quasi tutte le immagini che vedono la morte protagonista, colpisce l’indifferenza di questa allo status (sociale, politico, economico) delle sue vittime: tutti, uomini, donne, poveri, ricchi, miserabili e potenti, sono soggetti alla sua legge, sono tutti obbligati a seguirla. Questo poteva risultare quasi consolatorio per chi aveva tanto tribolato in vita: nessuno poteva sottrarsi. Per contro, la drammatica constatazione che nulla dura, che nulla si mantiene, non la ricchezza, non la giovinezza, non l’avvenenza fisica, che tutto è vano rendeva lo stesso senso del vivere precario e incerto. Il Memento mori (letteralmente: “ricordati che devi morire”), la nota locuzione in lingua latina, divenne, già nel Medioevo, un monito perenne per i vivi.
Nel Medioevo, a partire dalla seconda metà del XIII secolo, la Morte viene rappresentata attraverso l’iconografia della Nera Signora, rimasta immutata fino al XVII secolo, la cui immagine è quella di uno scheletro animato e ghignante, che talvolta presenta qualche brandello di carne ancora attaccato. Ella è sovente coperta da un nero mantello con cappuccio, è armata di una falce o di una lancia, occasionalmente è alata o a cavallo. Si tratta di una efficacissima quanto orrifica allegoria: le ossa umane, ciò che rimane dopo la decomposizione della carne, richiamano con grande efficacia il tema della corruttibilità del corpo.
Tra le più antiche espressioni del macabro tema della Morte, ricordiamo l’illustrazione della leggenda dell’Incontro dei tre vivi e dei tre morti, assai diffusa sotto forma di affreschi o miniature.
Tale leggenda – la cui narrazione scritta apparve per la prima volta in un racconto in francese del 1275, redatto da Baldouin de Condé, trovatore di Valenciennes – narra di tre giovani cavalieri che, durante una battuta di caccia nella foresta, incontrano tre cadaveri che li ammoniscono dicendo: «Ciò che sarete voi, noi siamo adesso. Chi si scorda di noi, scorda se stesso».
Un magnifico esempio di questa particolare allegoria della morte si trova nel Chiostro di Santa Maria di Vezzolano, ad Albugnano (Asti): è un affresco realizzato tra il 1350 e il 1360, dove i morti si ergono dalle tombe e dove compare anche un monaco, l’eremita, San Macario, qui nella veste di intermediario tra gli uomini e Dio, che ammonisce i cavalieri invitandoli a fare penitenza. Il terrore dei tre vivi è evidentissimo e si estende ai cavalli imbizzarriti. [Seconda parte]
Veramente ben fatto. Complimenti per la chiarezza e la cutura sul tema, non facile. Grazie Raimondo Murano
Grazie a Lei per le belle parole!