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Le ninfee di Monet
Gli ultimi capolavori del grande maestro impressionista.
Autore: Giuseppe Nifosì Pubblicato in Realismo ed Impressionismo – Data: Febbraio 26, 2020 1 commento 5 minuti
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Nel 1883, Claude Monet (1840-1926), indiscusso maestro dell’Impressionismo francese, acquistò una vecchia casa colonica presso Giverny, borgo a metà strada tra Parigi e la Normandia. Trasferitosi con tutta la sua famiglia, visse in questa casa più di quarant’anni, fino alla morte, dedicandosi totalmente alla pittura e alla cura del proprio giardino. L’artista-giardiniere coltivò le sue piante accostando le tinte dei fiori come in una gigantesca tavolozza. Le ninfee di Monet

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Claude Monet a Giverny davanti allo stagno delle ninfee, 1905. Fotografia.

La serie delle ninfee

In vecchiaia, riversò tutta la sua energia nella rappresentazione di questo piccolo angolo di Paradiso, da lui così tanto amato; dipingendolo, ne mise in evidenza il fascino e la poesia, producendo un gran numero di composizioni. Più ancora degli alberi e dei fiori, lo attrasse la superficie dell’acqua. Nel 1893, scavò nel giardino un piccolo fossato per ricavarvi uno stagno, che ornò con ninfee dai diversi colori. Le ninfee di Monet

Il ponte giapponese nella casa di Monet. Fotografia di Ottavio Tomasini.

Proprio al tema dei fiori che galleggiano sull’acqua l’artista, quasi cieco, lavorò con accanimento nel corso degli anni Novanta, ma anche più avanti nei primi decenni del XX secolo. Le ninfee diventarono una fonte inesauribile di spunti e d’ispirazione. Egli le dipingeva febbrilmente per cogliere gli effetti luminosi e cromatici che mutavano di continuo.

Claude Monet, Ninfee, 1897-99. Olio su tela. Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna.

L’artista osservava: «I fiori acquatici sono ben lungi dall’essere l’intero spettacolo, in realtà sono soltanto il suo accompagnamento. L’elemento base è lo specchio d’acqua il cui aspetto muta ogni istante per come brandelli di cielo vi si riflettono conferendogli vita e movimento». Le ninfee di Monet

Claude Monet, Lo stagno delle ninfee, armonia bianca, 1899. Olio su tela, 89 x 93 cm. Mosca, Museo Puškin.
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Claude Monet, Lo stagno delle ninfee, armonia bianca, 1899. Particolare.

Verso la pittura moderna

Con queste sue ultime creazioni, dipinte ancora durante i primi venti anni del Novecento, dunque durante la stagione delle Avanguardie, Monet si spinse molto al di là dei canoni dell’Impressionismo, fino a immergere lo spettatore nella materia pittorica. Nelle sue ninfee novecentesche, soprattutto, le nozioni di primo e secondo piano sono del tutto assenti e le linee si mescolano e si incrociano con le macchie di colore. Le ninfee di Monet

Claude Monet, Ninfee, 1904. Olio su tela. Collezione privata.

Sulla base di tali opere, parte della critica ha riconosciuto Monet come un profeta involontario della pittura astratta del primo XX secolo e addirittura dell’Informale, ossia dell’Astrattismo degli anni Cinquanta del Novecento. Tuttavia, sarebbe del tutto errato confondere i due generi. Nella pittura astratta colori e toni hanno valori a sé stanti che non vanno mai interpretati in chiave naturalistica. La dissoluzione della forma da parte del vecchio maestro, invece, non dimentica il soggetto che l’ha ispirata.

Claude Monet, Il ponte giapponese, 1899. Olio su tela, 89,5 x 115,3 cm. New York, Museum of Modern Art (MoMA).

Certamente, l’arte impressionista fu guardata con grande attenzione dai principali esponenti dell’Astrattismo novecentesco, che vi trovarono ispirazione. Vasilij Kandinskij, padre dell’Astrattismo, così ricordava nel 1913 il suo primo incontro con la pittura di Monet: «Mi trovavo per la prima volta di fronte a un dipinto rappresentante un pagliaio, come diceva il catalogo, ma che io non riconoscevo come tale. Questa incomprensione mi turbava, mi indispettiva; trovavo che il pittore non aveva il diritto di dipingere in modo così impreciso; sentivo sordamente che in quell’opera mancava l’oggetto (il soggetto), però con stupore e sgomento constatavo che non solo essa sorprendeva, ma si imprimeva indelebilmente nella memoria e si riformava davanti agli occhi nei suoi minimi particolari. […] La pittura mi apparve come dotata di una potenza favolosa, e inconsciamente l’oggetto trattato nell’opera perdette, per me, parte della sua importanza come elemento indispensabile». Le ninfee di Monet

Claude Monet, Il ponte giapponese, 1918. Olio su tela. Parigi, Museé Marmottan.

In questo, davvero, la lezione di Monet risultò fondamentale. Nell’elaborazione della sua tecnica, egli rifiutò ogni idea preconcetta sul soggetto e sullo stile; più di ogni altro pittore impressionista, cercò di rappresentare sulla tela l’attimo prima del suo trascorrere, la luce prima del suo cambiamento, il gesto prima del suo diventare posa; e, intuitivamente, decise di riprodurre solo ciò che l’occhio effettivamente era in grado di carpire: in definitiva, macchie colorate e luminose. «Cogliere l’attimo fuggente, o almeno la sensazione che lascia»: con queste parole, Monet chiarisce qual è il fine ultimo della sua pittura.


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