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Il termine “primitivismo” non indica un vero e proprio movimento artistico, quanto piuttosto una tendenza comparsa intorno al 1860 e molto diffusa in Europa tra il XIX e il XX secolo. Nato come conseguenza dello sviluppo coloniale, il primitivismo si tradusse in uno spiccato interesse da parte di pittori e scultori nei confronti dell’arte “primitiva”, africana, asiatica, oceanica, precolombiana e dei nativi americani: si tratta della cosiddetta découverte de l’art negre, la ‘scoperta dell’arte negra’. Novecento, primitivismo, estetica del brutto.
In verità, ancora all’inizio del Novecento, fu considerata “primitiva” ogni forma d’arte antica che non aveva conosciuto o mostrato interesse per il naturalismo idealizzato di stampo classico, quindi anche l’arte egizia e quelle tardoantica, bizantina e romanica. Gli artisti del tardo Ottocento e quelli delle Avanguardie artistiche, affascinati dalle caratteristiche marcatamente arcaiche delle opere d’arte etniche, soprattutto sculture di idoli e feticci, divennero prima estimatori, poi collezionisti di tali oggetti e infine interpreti del linguaggio primitivo che li caratterizzava.
In tanti si recarono assiduamente nei musei etnografici delle proprie città, come il Musée du Trocadéro di Parigi, nella cui sezione africana era facile incontrare Picasso e gli altri cubisti, o i non meno celebri musei delle città tedesche, di cui gli espressionisti furono instancabili frequentatori.
Impegnati nel rinnovamento radicale e imprescindibile dei tradizionali canoni estetici, tali artisti riconobbero all’arte primitiva un’essenziale spontaneità e una sincera genuinità, riconobbero nell’arcaico e nel primordiale l’espressione di un’assoluta libertà artistica. Simbolisti, espressionisti e cubisti, in particolare, furono attratti dal suo linguaggio figurativo, non basato sull’imitazione o l’idealizzazione neoplatonica della natura ma fondato sulla marcata stilizzazione e sulla deformazione dei dati naturali, sull’alterazione delle proporzioni e sul particolare uso del colore: tutti elementi coordinati dalla suggestiva quanto fantomatica “purezza mentale” dell’artista primitivo, il cosiddetto “buon selvaggio”, considerato libero, genuino, istintivo e spontaneo al pari di un bambino.
Ciò che affascinava dell’arte primitiva era da un lato la sua iconicità, ossia la sua volontà di ignorare i dati del reale per ricercare dimensioni più arcaiche e universali; dall’altro, la sua capacità di esprimere dimensioni interiori recondite, inquietanti, perfino demoniache: a questo, il pensiero di Freud non fu certamente estraneo. L’arte primitiva era percepita priva di filtri: era come l’urlo di un malato di mente, come il disegno di un bambino che racconta sia il mondo sia il proprio mondo interiore in modo libero e incondizionato. Feticci e maschere vennero, insomma, caricati di significati impliciti. Novecento, primitivismo, estetica del brutto.
Tali opere richiamavano subito alla mente la figura dello sciamano, da sempre capace di costruire ponti magici che collegano la realtà con il mondo misterioso del divino o dell’inconscio. Un po’ come l’artista moderno, che abbandona il suo tradizionale compito di raccontare, celebrare, educare, e diventa medium, capace di vedere oltre il reale, di addentrarsi nell’ignoto, di rivelare l’inconoscibile, di calarsi nelle profondità dell’anima per affrontare ataviche paure, mostruose pulsioni, segreti inaccettabili.
Picasso lo affermò esplicitamente: «Le maschere non erano come le altre sculture: erano qualcosa di magico, si ergevano contro tutto, contro gli spiriti ignoti e minacciosi. E io continuavo ad ammirare quei feticci… E capii. Anch’io mi ergo contro tutto. Anch’io credo che tutto sia sconosciuto, che tutto è nemico».
L’apparente paradosso è che gli artisti adottarono i feticci primitivi come emblema della modernità, percependola, alla fine, così poco moderna, nella consapevolezza che l’uomo avrà pure inventato l’automobile e l’aeroplano (e mai avrebbero immaginato avrebbe anche esplorato lo spazio infinito del cosmo) ma non ha mai risolto il conflitto con la propria identità animale, a dispetto dei millenni trascorsi.
L’approccio con il primitivismo fu quindi ben altro che la ricerca di un nuovo stile alla moda e l’accostamento all’arte primitiva si tradusse, di volta in volta, in espressione di valori differenti, accomunando artisti molto diversi tra loro. Per Gauguin, per esempio, fu rappresentazione di un mondo primigenio, per Matisse idillio campestre, per i pittori della Brücke, a partire da Kirchner, critica antiborghese, per Cézanne, Picasso, Modigliani e Brancusi indagine formale e intellettuale.
Gli espressionisti, in particolare, riconobbero alle forme arcaiche e primordiali dell’arte primitiva e ai volumi sintetici delle maschere africane un’intensa capacità comunicativa. Tale spasmodica ricerca di una ritrovata naturalezza artistica fu, insomma, il risultato di un consapevole e meditato atto creativo, che ebbe finalità estetiche molto precise e determinate a priori.
Nonostante l’indubbio fascino dei risultati raggiunti, essa fu ben lontana dal mitizzato “gesto istintivo e inconscio del selvaggio”: laddove, per inciso, l’arte africana e oceanica furono tutto tranne che istintive e inconsce. Ne consegue che il primitivismo, partito come soluzione formale a un problema estetico, si tradusse in «una più ampia ricognizione sui possibili modi d’osservare l’arte e pensare la creazione artistica» (A. Del Puppo). In questo, è la sua fondamentale importanza. Novecento, primitivismo, estetica del brutto.
Il ricorso ai modelli dell’arte primitiva offrì agli artisti delle Avanguardie il pretesto per proporre un’altra idea di bellezza, che non seguiva affatto i canoni tradizionali, legati all’estetica del classicismo, e che privilegiava forme disarmoniche e discordanti, colori acidi e violenti, immagini aspre e dissonanti, in altre parole, secondo un sentire comune, “brutte”. Se giudichiamo “bello” ciò che ci risulta gradevole, armonioso, proporzionato, equilibrato, il brutto ne costituisce l’antitesi. Percepiamo infatti come brutto ciò che ci appare sgraziato, sgradevole, disarmonico.
Identifichiamo il bello con qualcosa di “positivo” e il brutto come “negativo”. Il bello è il bene, il brutto è il male. Belli sono gli angeli, brutti sono i demoni; belli gli eroi, brutti i malvagi. Queste sono categorie antiche ma ancora valide. Ciò non toglie che l’arte si possa e si debba interessare anche del brutto.
Il tardo Simbolismo, con Ensor e Munch, per esempio, sviluppò una vera e propria estetica del brutto, esaltandone il valore artistico sia in chiave etica sia in chiave emozionale. Nel Novecento, si ispirarono alle maschere tribali sia l’Espressionista Kirchner sia il cubista Picasso, e con loro anche Modigliani, Brancusi, Max Ernst, Joan Miró, e ancora Alberto Giacometti, Lucio Fontana e Arnaldo Pomodoro, in un viaggio comune alla ricerca di stimolanti contaminazioni. Novecento, primitivismo, estetica del brutto.
Dunque, tra XIX e primo XX secolo si assistette a una progressiva legittimazione estetica del brutto. Il poeta francese Arthur Rimbaud (1854-1891), nel suo poema Una stagione all’inferno (1873) scrisse: «Una sera ho fatto sedere la Bellezza sulle mie ginocchia. – E l’ho trovata amara. – E l’ho ingiuriata».
Il divorzio tra arte e bellezza fu l’esito di una presa di posizione morale degli artisti simbolisti e avanguardisti, smarriti o indignati prima di fronte alla deriva dei più importanti valori sociali, poi al dramma della Prima guerra mondiale, nella costante consapevolezza dell’inutilità del vivere.
Arthur Danto (1924-2013), filosofo e critico d’arte statunitense tra i più importanti del secondo Novecento, osserva a questo proposito: «il concetto di bellezza divenne bruscamente politicizzato dagli artisti dell’avanguardia intorno al 1915, a metà strada nel periodo dei readymade di Duchamp. Così, diventò in parte un assalto a quella posizione secondo la quale arte e bellezza erano internamente legate, come lo erano il bello e il buono. Novecento, primitivismo, estetica del brutto.
E “l’abuso della bellezza” divenne uno strumento per dissociare gli artisti da quella società che disprezzavano». Lo aveva affermato con chiarezza anche il dadaista, e poi surrealista, Max Ernst: «Per noi, il dadaismo era soprattutto una reazione morale. La nostra rabbia mirava alla sovversione totale. Una guerra futile e orribile [la Prima guerra mondiale] ci aveva privato di cinque anni della nostra esistenza. Noi avevamo fatto esperienza dello sprofondamento nel ridicolo e nella vergogna di tutto ciò che era rappresentato ai nostri occhi come giusto, vero e bello. Le mie opere di quel periodo non volevano sedurre, ma far urlare la gente».