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Negli anni 1906-1907, il giovane Pablo Picasso (1881-1973), appena venticinquenne, stava lavorando febbrilmente, con studi, schizzi e varianti, a Les demoiselles d’Avignon, ossia all’opera che avrebbe segnato una svolta non solo nella sua carriera ma nello sviluppo dell’intera arte occidentale. Erano, quelli, anni fertilissimi di idee e di intuizioni in ogni campo, anche scientifico. Anni straordinari, dunque, la cui vivacità intellettuale e culturale non può essere ignorata se si vuole capire a fondo il senso della ricerca picassiana.
Indubbiamente, la potenza deflagrante di questo quadro, al netto dei precedenti cezanniani, sta nel definitivo e radicale abbandono del sistema prospettico tradizionale. La prospettiva decostruita di Picasso, in opere in cui l’immagine veniva scomposta e ricomposta in una sola ma complessa visione multicentrica, stava non soltanto mandando in frantumi la concezione classica dello spazio ma proponendo una nuova, rivoluzionaria concezione di dimensione spazio-temporale. Per quanto potesse, a quella data, non esserne ancora del tutto consapevole, Picasso applicava alla sua nuova pittura la teoria della quarta dimensione.
Già in un suo scritto del 1911, Guilluame Apollinaire (1880-1918), poeta e teorico del Cubismo, avrebbe affermato: «Sinora le tre dimensioni della geometria euclidea hanno soddisfatto l’inquietudine che il sentimento dell’infinito suscita nei grandi artisti. I nuovi pittori non si sono certo proposti, più degli antichi, di essere geometri. Ma si può dire che la geometria è per le arti plastiche ciò che la grammatica è per l’arte dello scrittore. Oggi gli scienziati non si attengono più alle tre dimensioni euclidee. I pittori sono stati portati naturalmente, e per così dire intuitivamente, a preoccuparsi delle nuove possibilità di misurare lo spazio che, nel linguaggio figurativo dei moderni, sono indicate con il termine di quarta dimensione».
Ma cos’è la quarta dimensione? La questione è scientificamente molto complessa, ancora oggi non è pienamente risolta e il dibattito resta aperto. Spiegava, negli anni Ottanta del XX secolo, il matematico Rudy Rucker: «Nessuno è in grado di indicare la quarta dimensione, eppure essa ci circonda. Essa è argomento di meditazione per filosofi e mistici; i fisici e i matematici la utilizzano nei loro calcoli. La quarta dimensione è parte integrante di molte serie teorie scientifiche, e allo stesso tempo viene abbondantemente sfruttata in campi di discutibile reputazione, come lo spiritismo e la fantascienza.
La quarta dimensione è una direzione diversa da tutte le direzioni dello spazio normale. Alcuni dicono che la quarta dimensione è costituita dal tempo e, in un certo senso, questo è vero. Altri affermano che la quarta dimensione è una direzione dell’iperspazio affatto diversa dal tempo… e anche questo è vero. Vi sono, in effetti, molte dimensioni superiori. Una di queste è il tempo, un’altra è la direzione di curvatura dello spazio, e un’altra ancora è quella che può condurre verso universi totalmente differenti che esisterebbero parallelamente al nostro».
Riconducendoci all’inizio del XX secolo, in fisica, e con particolare riferimento alla Teoria della relatività, la quarta dimensione venne riferita al tempo. Fu nel 1905 (quindi poco prima che Picasso mettesse mano alle Demoiselles), che un giovane fisico tedesco, Albert Einstein (1879-1955), 26 anni appena compiuti, inviò alla rivista «Annalen der Physik» un articolo in cui rivide completamente la concezione classica del tempo e dello spazio.
Einstein, asserendo che non esistono sistemi di riferimento assoluti, teorizzò una nuova forma di spazio-tempo quadridimensionale unificato, a cui riferire tutti gli eventi del nostro universo. Sulla scorta delle nuove teorie di Enstein, lo spazio non andava più misurato soltanto attraverso l’altezza, la larghezza e la profondità ma tenendo conto di un nuovo fattore, il tempo, senza più prescindere dall’idea di movimento.
Picasso conosceva l’articolo di Einstein? Non possiamo asserirlo. È più probabile che l’artista conoscesse (attraverso le accese discussioni del suo gruppo di amici intellettuali) le teorie del matematico e fisico francese Henri Poincaré (1854-1912), che già nel 1902 aveva, prima di Einstein, affrontato il problema della necessità di un approccio non euclideo alla geometrizzazione del mondo fisico. Sicuramente, invece, Picasso conosceva il pensiero del filosofo francese Henri Bergson (1859-1941), che nel 1884 aveva teorizzato la spazializzazione del tempo e che avrebbe da lì a pochi anni ispirato un altro capolavoro del Novecento: La persistenza della memoria di Salvador Dalì.
È quindi lecito affermare che Picasso si fece, come Einstein, partecipe dello spirito di quegli anni e che il pittore e il fisico, separatamente, giunsero con le loro due opere – il quadro e l’articolo – alle due medesime conclusioni: che non esistono sistemi di riferimento privilegiati e che la concezione plurimillenaria dello spazio classico andava ricusata. Einstein, attraverso un nuovo modello matematico, e Picasso, attraverso una geniale intuizione artistica, elaborarono, nella sostanza, lo stesso concetto di relatività.
Per millenni, gli artisti avevano operato rimanendo fermi e riproducendo, nelle tre dimensioni, una realtà in modo più o meno fedele a quanto i loro occhi vedevano. Perfino la realtà inventata con la fantasia era per molti versi comunque “verosimile”. Sostenuto dall’insegnamento di Cézanne, ispirato dalle nuove teorie fisico-matematiche, Picasso nel dipingere si immaginò in movimento, indagò la realtà da molti punti di vista, quindi in momenti successivi del tempo, e nella sua opera finale ripropose, sintetizzati in una sola immagine, i molti aspetti che di quella realtà aveva potuto indagare: in una efficacissima sintesi spazio-temporale.
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Esco da un Liceo Artistico e paradolsamente Ho bevuto l’acqua del fiume Lete e nell’oblio ho visto Zeus pittore di farfalle, Mercurio e la virtù ridere dell’uomo per questo, chiedo, in quante sconosciute direzioni si estende la mia anima e quanto lontano potrei andare. Invece sono fermo qui a guardare Zeus a dipingere farfalle e Mercurio a ridere di noi credendo di avere solo tre dimensioni