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All’esordio del XIX secolo, il Romanticismo rinnovò profondamente la concezione della pittura di paesaggio, proponendo al pubblico un’importante alternativa alla pura raffigurazione della natura, basata sulla semplice mímesis, che sarebbe stata comunque perseguita da realisti e impressionisti nel corso del secolo. Il paesaggismo romantico, infatti, puntò a rivelare – attraverso la riproduzione di elementi naturali – uno stato dell’anima: produsse immagini profondamente sentimentali, se non addirittura filosofiche. Dal paesaggio romantico a quello simbolista.
Fu così con Friedrich, per esempio, il quale espresse, proprio attraverso i paesaggi, una romantica smania d’infinito. Il simbolismo raccolse, a distanza di pochi anni, questa importante eredità. Dipingendo i propri paesaggi, marine, campagne, boschi, montagne, i pittori simbolisti, così come i divisionisti e anche altri artisti in qualche modo riconducibili all’ambito simbolista, scelsero di caricare la raffigurazione della natura di una forte tensione spirituale, al punto di trasformare, a volte, l’intera immagine in una sorta di grande metafora. Il mare non è più solo una distesa acqua, il sole e la luna non sono propriamente astri, le stelle alludono ad altro e così le piante e gli animali raffigurati. Dal paesaggio romantico a quello simbolista.
Nel 1903, il pittore divisionista Giuseppe Pellizza da Volpedo (1868-1907) scrisse a un amico di voler scegliere «soggetti eterni» e quindi di voler trattare «la bella natura che assorbe l’uomo e lo annienta per campeggiare essa stessa sfolgorando la sua immortale bellezza». L’anno dopo, dipinse una delle sue più celebri opere paesaggistiche: Il sole, noto pure come Il sole nascente. Si coglie a un primo sguardo che il vero soggetto dell’opera non è tanto il sole quanto il suo apparire sfolgorante.
Se la sua fede divisionista lo spinse (assecondando le analisi della scienza fisica) a tradurre la luce con la somma dei colori che la compongono, l’indole profondamente simbolista gli suggerì di trasformare la visione del sole che sorge in qualcosa di più alto e universale: ossia in una celebrazione del passaggio dalle tenebre alla luce, del momento generante della vita, del disvelamento della verità, di una fede politica (il sole nascente simboleggia il “sole dell’avvenire” che irradia il nuovo mondo socialista e comunista).
Il pittore simbolista svizzero Arnold Böcklin (1827-1901) fu un vero maestro nella creazione di paesaggi simbolisti. Tale può considerarsi, per esempio, quello dell’Isola dei morti, dove il mare, l’isola medesima, i cipressi sono elementi naturali trasfigurati dall’artista per richiamare il vero tema del dipinto, che appunto è la morte. Contrapponendosi all’immediatezza dei paesaggi impressionisti, quelli simbolisti di Böcklin (non privi di retaggi romantici) ricercano costantemente la dimensione dell’enigma, richiedono un’interpretazione, stimolano una dolente riflessione. Così è, per esempio, per Rovine sul mare, opera del 1880. In questa veduta marina al tramonto, quasi un notturno considerando l’ora avanzata, il cielo plumbeo striato di luci inquietanti, l’edificio diroccato, i cipressi, lo stormo di uccelli neri che volano torvi sono tutti allusivi alla fine della vita. Dal paesaggio romantico a quello simbolista.
Anche il Paesaggio al tramonto dell’allora divisionista Umberto Boccioni (1882–1916), opera del 1906 e dunque di poco antecedente alla sua successiva conversione futurista, ci offre una immagine quasi astratta della natura, tutta costruita attraverso pennellate oblique, sghembe e affrettate, con quella macchia scura di alberi al centro che incombe minacciosa. Un paesaggio che nuovamente va oltre il paesaggio stesso e si fa immagine di inquietudine interiore. Annotava l’artista sul suo diario: «Bisogna che mi confessi che cerco, cerco, cerco, e non trovo. Troverò?».
Una notte del 1888, mentre si trovava ad Arles, il grande pittore olandese Vincent Van Gogh (1853–1890) uscì per dipingere al buio. «Finalmente il cielo stellato dipinto di notte, alla luce di una lampada a gas», scrisse al fratello Theo. Si tratta di Notte stellata sul Rodano, capolavoro che precedette e anticipò quello, ben più famoso e struggente, di Notte stellata, realizzato durante il drammatico ricovero nel manicomio di Saint-Remy. «Sento un terribile bisogno di – la chiamerò con il suo nome – religione, e allora esco di notte a dipingere le stelle». Non solo cielo, non solo stelle, dunque. Vincent anela a Dio e lo cerca proprio in quel cielo stellato attraverso cui il divino, qui infinito e rassicurante, si manifesta. Dal paesaggio romantico a quello simbolista.
Anche il pittore norvegese Edvard Munch (1863–1944), affascinato dalla notte, dipinse alcuni cieli stellati. Munch, nei suoi scritti, si paragonò a Van Gogh giacché, come lui, sentì che dipingere vuol dire «interpretare intense emozioni nel momento stesso in cui si lavora in presa diretta sulla natura – o la natura osservata in termini di intense emozioni», anche se «l’incandescente fornace della mente divora con ferocia il sistema nervoso (Van Gogh ne è un esempio, come lo sono io)». Simbolico, nel linguaggio e nel significato, come quello di Van Gogh, il cielo stellato di Munch è tuttavia ben più triste, malinconico e raggelante: la neve ghiacciata, le ombre lunghe e rigide, le stelle schizzate in cielo ci raccontano di una visione del mondo e della vita che poche aperture offrono alla speranza. Dal paesaggio romantico a quello simbolista.
«Una casa pensile in aria sospesa con funi a una stella»: questa immagine, così vividamente pittorica, è un frammento dello Zibaldone (256, 1 ottobre 1820) del grande poeta romantico Giacomo Leopardi (1798–1837). Come anche per i pittori ottocenteschi, l’immagine del cielo stellato suscita nel grande poeta romantico pensieri che afferiscono a una dimensione filosofica ed esistenziale.
Ritroviamo questo ideale dialogo con le stelle ne Le ricordanze (1829): «Vaghe stelle dell’Orsa, io non credea / tornare ancor per uso a contemplarvi / sul paterno giardino scintillanti, / e ragionar con voi dalle finestre»; in Canto notturno di un pastore errante dell’Asia (1829-30): «E quando miro in cielo arder le stelle; / dico fra me pensando: / a che tante facelle? / Che fa l’aria infinita, e quel profondo/ Infinito Seren? Che vuol dir questa / solitudine immensa? Ed io che sono?»; ne La ginestra, o fiore del deserto (1836): «Sovente in queste rive, / che, desolate, a bruno / veste il flutto indurato, e par che ondeggi, / seggo la notte; e sulla mesta landa / in purissimo azzurro / veggo dall’alto fiammeggiar le stelle».
La contemplazione del cielo stellato diventa, insomma, per Leopardi occasione per interrogarsi sulla condizione dell’uomo, sospeso tra nascita e morte, tra finitezza e aspirazione all’infinito. L’immagine della casa appesa alla stella è in tal senso emblematica: la stella è lontana e irraggiungibile e tuttavia sostiene ciò che è prossimo, domestico, dunque profondamente umano. L’uomo avverte un senso di smarrimento di fronte alla sconfinatezza del cielo stellato; eppure, leggiamo ancora nello Zibaldone, «niuna cosa maggiormente dimostra la grandezza e potenza dell’umano intelletto, né l’altezza e nobiltà dell’uomo che il poter l’uomo conoscere e interamente comprendere e fortemente sentire la sua piccolezza». Nella sua consapevolezza di essere quasi nulla, l’uomo si smarrisce e tuttavia proprio tale consapevolezza lo rende grande. Dal paesaggio romantico a quello simbolista.
Il riferimento alla natura, nella poetica leopardiana, non ha quindi mai, in alcun caso, uno scopo meramente descrittivo. Tale caratteristica si riscontra in un ampio settore della poesia italiana dell’Ottocento. Giosuè Carducci (1835-1907), poeta di profondissima cultura, Premio Nobel per la letteratura nel 1906, assunse una posizione molto critica nei confronti del Romanticismo, aderendo a un classicismo basato sulla ricerca di armonia, chiarezza e bellezza della forma. Tuttavia, nella poesia carducciana sono riscontrabili alcune componenti che avrebbero aperto la strada al Decadentismo. Non mancano, infatti, metafore (intese come similitudini) percepibili dal lettore come sottilmente inquietanti. Dal paesaggio romantico a quello simbolista.
Nella chiusa della poesia San Martino (1883), un cacciatore guarda le nuvole rosse del tramonto, mentre uno stormo di corvi neri si allontanano in direzione della notte: «Sta il cacciator fischiando / su l’uscio a rimirar / tra le rossastre nubi / stormi d’uccelli neri, / com’ esuli pensieri, / nel vespero migrar». Gli uccelli richiamano i pensieri fuggenti e alludono al profondo senso di irrequietezza che è proprio del poeta ma, nel contempo, dell’umanità intera.
In Pianto antico (1871) poesia scritta in memoria del figlio Dante, morto a soli tre anni, Carducci affronta, attraverso la ciclicità della natura, il tema della contrapposizione tra vita e morte attraverso il confronto tra immagini vitalistiche, colorate e luminose, segnatamente primaverili (il “verde melograno”, i “bei vermigli fior”), e altre cupe e invernali (“la terra fredda”, “la terra negra”) che servono a comunicare il senso della fine di tutto. Dal paesaggio romantico a quello simbolista.
Le metafore di Leopardi e Carducci precedono e anticipano la piena simbologia di Giovanni Pascoli (1855-1912), che nella sua poesia dedicò ampio spazio sia alla natura sia al tema della morte (il padre del poeta venne assassinato quando lui era poco più che un bambino). Con Pascoli emerge la figura di un poeta che si ripiega in sé stesso, che si rifugia nella rassicurante dimensione delle piccole cose, trattate attraverso una serie di simboli ricorrenti, tratti in prevalenza dal mondo campestre e contadino: il nido, l’orto, la siepe, gli uccelli, i fiori.
I simboli del “nido”, della “casa”, del “focolare”, della “culla”, del “grembo materno” si rendono testimoni di una costante ricerca di conforto, sicurezza, rifugio, protezione e, anche, di una regressione del poeta alla dimensione infantile. È la cosiddetta poetica del “fanciullino”, che è capace di vedere oltre le piccole cose, che non indaga razionalmente la realtà ma sceglie di dialogare con essa, penetrando la sua essenza profonda e cogliendone i significati misteriosi. Dal paesaggio romantico a quello simbolista.
Nel contempo, questa ricerca ossessiva del nido tradisce “l’incapacità di vivere” del poeta, trae la propria origine da una profonda paura del mondo. Altro simbolo pascoliano è la nebbia, che sembra dare sostanza al mistero della vita ed evoca uno stato d’animo di solitudine e attesa. La nebbia, d’altro canto, è amata dal poeta, perché lo nasconde al Male, così come la siepe che circonda la sua casa. Le campane, nelle poesie di Pascoli, richiamano i ricordi infantili; altre volte, però, sanno comunicare sentimenti di angoscia e paura. I fiori simboleggiano sensualità o morte; gli uccelli, infine, non rimandano all’amato simbolo del nido ma alludono a una dimensione che esula quelle consuete di spazio e tempo e non di rado sono annuncio di morte.
Nell’opera di Pascoli, in particolare, ha grande efficacia simbolica il richiamo alle componenti del creato (il cielo, le stelle) e agli eventi atmosferici (il temporale, il lampo, il tuono), questi ultimi percepiti come angoscianti e descritti con sintetica efficacia, tanto da spingere alcuni critici a definire – impropriamente – certe poesie di Pascoli “impressioniste”. In X Agosto (San Lorenzo), una poesia del 1896 dedicata al padre Ruggero (assassinato proprio il 10/8/1867), le stelle cadenti sono identificate con il pianto del cielo: «San Lorenzo, io lo so perché tanto / di stelle per l’aria tranquilla / arte e cade, perché sì gran pianto / nel concavo cielo sfavilla». Il motivo è, appunto, l’uccisione di Ruggero, raccontata nella parte centrale della poesia. «E tu, Cielo, dall’alto dei mondi / sereni, infinito, immortale, / oh! D’un pianto di stello lo inondi / quest’atomo opaco del Male!».
Intensa e, potremmo dire, fulminante la descrizione di un lampo, nella poesia omonima, Il lampo (tratta dalla raccolta poetica Myricae, 1891): «E cielo e terra si mostrò qual era: / la terra ansante, livida, in sussulto; / il cielo ingombro, tragico, disfatto: / bianca bianca nel tacito tumulto / una casa apparì sparì d’un tratto, / come un occhio, che, largo, esterrefatto, / s’aprì si chiuse, nella notte nera». Il lampo, squarciando il nero della notte, svela, con un solo bagliore, la condizione della terra (ansimante, sconvolta) e del cielo (nuvoloso, cupo), descritti come se fossero esseri viventi, e illumina per un solo attimo una bianchissima casa (il nido familiare). L’immagine, nella sua tragicità iconica, pare colta con l’attonito sgomento dell’occhio di un morente ed è metafora della brevità e precarietà della vita.
Lampi come questi, terribili, potentissimi, gravidi di elettricità devastatrice, vennero dipinti qualche anno dopo dall’allora divisionista Luigi Russolo (1885–1947), giusto prima di iniziare, assieme a Boccioni, la sua nuova avventura futurista. Il quadro, Lampi, è spaventosamente carico di energia esplosiva: quasi una divinità distruttiva di fronte alla quale l’umanità, rappresentata dalla città moderna con le sue ciminiere e i lampioni, sembra essere inerme. A differenza di Pascoli, però, Russolo non avrebbe ceduto allo scoramento esistenziale. Egli confidava nella capacità dell’uomo novecentesco di dominare la potenza della Natura: da cui si spiega il suo passaggio alla compagine del nascente Futurismo.