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Ci racconta Vasari nelle sue Vite che Cosimo il Vecchio dei Medici decise di costruire un nuovo palazzo in prossimità delle chiese protette dalla sua famiglia, ossia San Lorenzo e San Marco, in quello che oggi viene chiamato, per questo motivo, “Quartiere mediceo”. A tale scopo, convocò Filippo Brunelleschi (1377-1446) e gli conferì l’incarico di occuparsi del progetto. Sempre secondo il Vasari, Brunelleschi propose a Cosimo un magnifico edificio, davvero senza confronti a Firenze, da costruire in Piazza San Lorenzo.
Il palazzo sarebbe stato isolato, con tre facciate: quella occidentale di fronte alla Chiesa di San Lorenzo, perfettamente in asse con essa; quella settentrionale affacciata su un’altra piazza, da ricavare nell’area dove poi sarebbe sorto l’attuale Palazzo Medici; quella orientale, infine, su Via degli Spadai (oggi Via Martelli).
Cosimo rifiutò questo progetto così ambizioso, giudicandolo “troppo sontuoso e magnifico”, secondo il Vasari, e tale da “recargli fra i suoi cittadini piuttosto invidia che grandezza e ornamento per la città, o comodo in sé”. A tacere del fatto che l’impresa avrebbe richiesto un investimento economico davvero notevole. Vasari ci riferisce che Brunelleschi la prese malissimo e ruppe il modello del palazzo “in mille pezzi”. E fu a questo punto, nel 1444, che entrò in scena Michelozzo.
Allievo di Ghiberti, nonché amico e collaboratore di Donatello, Michelozzo (1396-1472) si era accreditato come uno dei più prolifici professionisti fiorentini del Quattrocento. Dal Libro di Antonio Billi (una sorta di raccolta di notizie di carattere storico-artistico, composta intorno al 1481), sappiamo che «fece assai modelli ed edifizii a vari signori». Michelozzo fu dunque l’architetto “dei signori”, colui che fu in grado d’interpretare appieno la volontà di modernizzazione (in senso classicistico) espressa dalle numerose committenze delle famiglie mercantili fiorentine.
Vasari lo definì come «il più ordinato» dei suoi tempi (ma solo dopo Brunelleschi), l’architetto che «più agiatamente» e «con più giudizio» dispensò e accomodò palazzi, conventi e case. L’opera michelozziana seppe dunque incarnare l’ideale toscano che univa semplicità ed eleganza, maestà e ordine, materiali comuni e nitore formale.
Michelozzo propose a Cosimo di edificare il palazzo in Via Larga, non in asse con la Basilica di San Lorenzo, e di adottare un tipico rivestimento murario della tradizione fiorentina, che nel Medioevo veniva normalmente usato per i palazzi pubblici, sedi dei governi cittadini. Si trattava del bugnato, dove conci di pietra sono lavorati in modo da creare una superficie convessa e sporgente (la cosiddetta bugna). Cosimo ne fu assai soddisfatto.
Prima di essere sottoposto a ingrandimenti e ristrutturazioni, il palazzo michelozziano appariva come un sobrio ma imponente cubo di pietra, alleggerito da una loggia d’angolo e sviluppato attorno a un cortile centrale. La facciata principale, divisa in tre piani separati da cornici marcapiano, era scandita da dieci finestre bifore a tutto sesto ed era larga quasi come il prospetto laterale, che presenta ancora oggi nove campate. Le alte finestrelle che corrono al piano terra conferiscono al palazzo un tono feudale, da castello trecentesco.
Michelozzo non rinnegò la tradizione costruttiva fiorentina ma riuscì ad aggiornarla. Scelse, infatti, di graduare l’aggetto del bugnato, lasciandolo sporgente al piano terra, appiattendolo al primo piano e lisciandolo al secondo; così facendo, non solo mitigò il richiamo alla caratteristica casa-fortezza medievale ma evocò la sovrapposizione degli ordini romana.
Negli edifici di grande prestigio, come il Colosseo, gli antichi Romani usavano gli ordini architettonici, ossia dorico, ionico e corinzio, sovrapponendoli dal basso verso l’alto, dal più massiccio al più leggiadro, per conferire un senso di progressivo alleggerimento della struttura. Il bugnato di Michelozzo, agli occhi degli uomini di cultura, certamente apparì per quello che era, ossia come una citazione non esplicita.
Fu invece Leon Battista Alberti (1404-1472), con Palazzo Rucellai, il primo, e l’unico a Firenze, ad adottare esplicitamente, e più coraggiosamente, l’ordine architettonico classico per la facciata di un edificio gentilizio privato moderno.
Il cortile di Palazzo Medici fu subito apprezzato per la sua eleganza e la sua armonia. È circondato da un portico con colonne composite, concluso da un alto fregio decorato con festoni ad affresco e medaglioni che contengono lo stemma dei Medici e varie scene mitologiche (attribuite a Bertoldo di Giovanni). Il secondo ordine è a parete piena, aperta da bifore collocate in asse con gli archi sottostanti; l’ultimo piano è composto da una loggetta trabeata.
I Medici erano dei finissimi intenditori d’arte, dei mecenati munifici e degli infaticabili collezionisti; le raccolte di Palazzo Medici vantavano opere come il David e la Giuditta di Donatello, gli affreschi di Benozzo Gozzoli, le tre tavole della Battaglia di San Romano di Paolo Uccello, la Primavera e la Venere di Botticelli, oltre che dipinti di Verrocchio, Pollaiolo, Ghirlandaio e prestigiose collezioni di gemme, vasi e camei.
Il palazzo si arricchiva di un giardino sul lato nord, a pochi passi verso la Chiesa di San Marco, noto come Orto di San Marco o Giardini di San Marco. Qui, Lorenzo il Magnifico collocò le sculture classiche della propria collezione, comprate in larga parte a Roma, e allestì una sorta di Accademia d’arte affidandola alla direzione dello scultore Bertoldo di Giovanni. Nei Giardini di San Marco giovani talenti potevano studiare imparando le tecniche della scultura, esercitandosi nel disegno e copiando i modelli classici; fu qui che si formò il giovane Michelangelo Buonarroti. Secondo il manoscritto noto come Anonimo Gaddiano, i Giardini vennero frequentati anche da Leonardo.
Nel 1494, quando i Medici vennero cacciati da Firenze, Palazzo Medici fu confiscato dalla neonata Repubblica; alcune sculture, tra cui il David e la Giuditta di Donatello, vennero trasferite a Palazzo della Signoria. Quando i Medici rientrarono in città, nel 1512, tornarono a risiedere nel loro palazzo di via Larga; in tale circostanza, nel 1517, la loggia angolare del palazzo venne chiusa da pareti, con due grandi finestre dotate di timpano, tradizionalmente attribuite a Michelangelo e dette “inginocchiate” perché sono appoggiate a due grandi mensole, che sembrano appunto gambe. Tali finestre sarebbero state prese a modello per molte altre analoghe aperture, nel corso del Rinascimento.
Nel 1540, il giovane duca Cosimo I dei Medici, Granduca di Toscana, decise di lasciare l’antica dimora di famiglia per trasferirsi nel più strategico e autorevole Palazzo della Signoria; sua moglie, invece, acquistò e ristrutturò Palazzo Pitti, trasformandolo in una reggia sontuosa per la propria famiglia.
Nel 1659, Palazzo Medici, oramai considerato antiquato, venne venduto al marchese Gabriello Riccardi, che lo ampliò verso nord e ne ristrutturò gli interni in stile barocco. È a questo periodo che risale la decorazione della Galleria con gli affreschi di Luca Giordano. Il declino economico della famiglia Riccardi fu la causa della vendita dell’edificio al demanio fiorentino, nel 1814. Oggi, Palazzo Medici è sede del Consiglio Metropolitano.
Progettando Palazzo Medici, Michelozzo fu il primo a mettere a punto i caratteri del palazzo cittadino richiesti dalla nuova epoca. Con questo edificio, che divenne il prototipo del palazzo signorile del Rinascimento, egli formulò un linguaggio monumentale di facciata, destinato a rimanere in uso per l’intero Quattrocento. Tutti i più importanti palazzi fiorentini presentano, sia pure con qualche variante, la medesima soluzione del rivestimento in bugnato. Certo, resta irrisolta la questione del primo progetto per Palazzo Medici, quello di Brunelleschi. Il modello brunelleschiano è databile non oltre il 1443. Ma che aspetto aveva? Era anche questo a bugnato? È forse da attribuire a Brunelleschi l’idea di adottare il bugnato anche per i palazzi signorili? Non lo sappiamo.
Resta il fatto che il primato della realizzazione della facciata a bugnato va assegnato, in termini strettamente cronologici, a Michelozzo con il “suo” Palazzo Medici (1444-64). Palazzo Rucellai di Alberti (1446-52) è, sia pure di poco, posteriore. Palazzo Pitti fu iniziato solo nel 1458, Palazzo Strozzi, progettato sul modello di Palazzo Medici, addirittura nel 1489.
La documentazione relativa a Palazzo Pitti è piuttosto scarsa e non ha consentito di ricostruire con precisione le fasi costruttive. La tradizione vuole sia stato realizzato su progetto di Filippo Brunelleschi. Per molti anni, alcuni storici dell’arte hanno addirittura riconosciuto in questo edificio la realizzazione postuma dello stesso progetto che Brunelleschi aveva proposto a Cosimo e che poi vendette a Luca Pitti. Michelozzo avrebbe visto il modello di Filippo e ne avrebbe riproposto in anticipo i caratteri generali.
Questa ipotesi non rende onore a Michelozzo e soprattutto non è plausibile. Perché Cosimo avrebbe dovuto rifiutare il modello di Filippo per poi accettarne uno simile? È infatti lecito immaginare che Brunelleschi avesse proposto al Medici una soluzione ben più classicistica, per esempio adottando gli ordini architettonici per i tre prospetti.
È certo che Luca Pitti, ricchissimo banchiere rivale di Cosimo il Vecchio, desiderava un palazzo più monumentale e sontuoso di quello mediceo, addirittura, secondo le fonti, con le finestre più grandi della porta principale di quello michelozziano; per questo, secondo il Vasari, avrebbe chiesto a Brunelleschi di progettarglielo, arrivando a contrarre un grande debito pur di costruirlo. I lavori, tuttavia, iniziarono solo alcuni anni dopo la morte di Brunelleschi.
D’altro canto, negli anni Quaranta Luca Pitti non aveva ancora la disponibilità finanziaria per poter chiedere a Brunelleschi un progetto di tale portata e nemmeno possedeva i terreni su cui costruire il palazzo. Il cantiere venne affidato nel 1458 a Luca Fancelli (1430-1502 ca), allievo e collaboratore di Filippo; non sappiamo se questi rimase fedele al progetto brunelleschiano, ammesso poi che un tale progetto sia mai realmente esistito.
In verità, l’accentuata monumentalità di Palazzo Pitti, con quella sua sequenza di grandi archi, è assai devota alla solennità degli antichi edifici pubblici di Roma e mostra la profonda influenza esercitata sul Fancelli dal pensiero di Leon Battista Alberti, che aveva già pubblicato il proprio trattato sull’architettura, il De Re Aedificatoria. Insomma, è francamente assai più probabile che il Fancelli sia stato l’unico e vero autore di Palazzo Pitti.
Al termine della sua costruzione, alla fine del Quattrocento, Palazzo Pitti non aveva l’aspetto che ha oggi. La sua facciata era molto più stretta di quella attuale, con sette finestre al primo come al secondo piano e tre ingressi (due dei quali sono stati convertiti in finestre “inginocchiate” durante il Cinquecento). La presenza di una piazza davanti all’edificio, privilegio che ben pochi privati cittadini potevano permettersi, garantiva una corretta visione frontale e centrale del prospetto. Come Palazzo Medici, anche la residenza dei Pitti presenta un rivestimento a bugnato, che in questo caso, però, Brunelleschi e Fancelli decisero di digradare pochissimo, lasciando la sporgenza delle bugne sostanzialmente costante dal piano terra al coronamento.
Nel 1549 i Pitti, in gravi difficoltà economiche, furono costretti a vendere il proprio palazzo di famiglia a Eleonora di Toledo, moglie di Cosimo I dei Medici, Granduca di Toscana, la quale non amava vivere a Palazzo Vecchio, che giudicava cupo e soffocante, e riteneva la zona fiorentina di Oltrarno, dove il palazzo sorge, più gradevole, salubre e sicura del centro cittadino. La donna, che aveva contratto la tubercolosi, soffriva infatti di emorragie polmonari e desiderava per sé e per i suoi figli, a loro volta cagionevoli di salute, ambienti luminosi e spazi aperti in cui trascorrere le proprie giornate.
La ristrutturazione del palazzo, che mantenne il nome dei primi proprietari, venne affidata ai principali esponenti del Manierismo architettonico fiorentino, ossia Bartolomeo Ammanati (architetto favorito del Granduca, che ampliò il corpo di facciata), Niccolò Tribolo, Giorgio Vasari e Bernardo Buontalenti. Quest’ultimo, in particolare, si occupò della progettazione del grandioso parco che arricchisce la nuova residenza medicea, il famoso Giardino di Boboli. Sotto i Lorena, vennero costruite le due ali avanzanti del Palazzo, a portici e terrazze, dette “rondò” e l’originaria estensione della piazza venne addirittura triplicata.
Nel 1860, Palazzo Pitti passò tra i Beni della Corona d’Italia e, negli anni di Firenze Capitale (1865-1871), venne abitato da Vittorio Emanuele II. Vittorio Emanuele III lo donò allo Stato italiano nel 1919, assieme alla piazza e al Giardino di Boboli. Oggi l’edificio è sede di importantissimi musei, tra cui la Galleria Palatina, la Galleria d’Arte Moderna e il Museo della Moda e del Costume.
Un altro palazzo fiorentino a riproporre il modello michelozziano di residenza patrizia a bugnato è Palazzo Strozzi, uno dei più imponenti e monumentali della città. La sua costruzione iniziò per volere di Filippo Strozzi, ricchissimo mercante rivale, come Pitti, di Cosimo il Vecchio, la cui famiglia aveva pagato l’opposizione ai Medici con l’esilio. Rientrato a Firenze nel 1466, Filippo considerò la realizzazione della sua fastosa residenza come una vera e propria forma di riscatto, politico e sociale. Un primo progetto venne realizzato tra il 1489 e il 1490, forse da Giuliano da Sangallo (1445-1516) o, come ci dice il Vasari, da Benedetto da Maiano (1442-1497).
È certo che i lavori procedettero lentamente e con difficoltà, soprattutto dopo la morte di Filippo, che quindi non vide mai coronare il suo sogno e non riuscì ad abitare nella sua nuova sontuosa dimora. La costruzione venne conclusa da Simone del Pollaiolo detto il Cronaca (1457-1508) e da Baccio d’Agnolo (1462-1543), che nel 1538 ultimò gli spazi interni.
Palazzo Strozzi, più grande di Palazzo Medici, ne ripropone sostanzialmente lo schema di edificio cubico alto tre piani e sviluppato attorno a un cortile centrale, con un rivestimento a bugnato uniforme (a differenza di quello michelozziano) che lo fa apparire più maestoso e autorevole.
Su tre prospetti si aprono altrettanti portali ad arco. L’edificio conserva ancora i portafiaccole, le torciere, i portabandiere e gli anelli per i cavalli in ferro battuto originali, opera di Niccolò Grosso detto il Caparra, il più famoso ferraio fiorentino del Quattrocento.