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Secondo il Vasari, il pittore fiorentino Beato Angelico (1400 ca.-1455), frate domenicano, fu devotissimo credente prima ancora che grandissimo artista: «Dicono alcuni che fra Giovanni non avrebbe preso i pennelli se prima non arebbe fatto orazione. Non fece mai Crocifisso, che e’ non si bagnasse le gote di lagrime». In effetti, fu proprio questa sua devozione intensa a farlo diventare “beato”, prima a furor di popolo e poi, nel XX secolo, anche per la Chiesa.
L’Angelico è ricordato soprattutto per le sue caste e virginali Madonne, ma grande attenzione meritano i suoi dipinti dedicati alle scene della Passione. C’è, infatti, tanta concretezza, nella riflessione artistica di Angelico sul tema della fede, che non è un astratto o contemplativo stato d’animo ma scommessa concreta, investimento di vita.
Nell’affresco con la Crocifissione e santi realizzato nella sala del Capitolo del convento di San Marco, a Firenze, Gesù è affiancato dai due ladroni, normalmente concepiti quasi come figure accessorie e che invece Angelico rende chiaramente protagonisti. Il ladrone di destra non guarda Gesù e urla disperato la propria solitudine: un urlo straziante, degno di quello lanciato dalla Eva masaccesca della Cappella Brancacci.
Il ladrone di sinistra, invece, guarda Gesù ed è sereno, come se fosse finalmente arrivato alla conclusione di un cammino. Prima di tutto ci colpisce, di quest’uomo, la concreta fisicità, resa visibile da una correttissima anatomia e da uno scorcio impeccabile, ma soprattutto espressa da pochi, inaspettati dettagli, come i peli del petto e delle ascelle, e la peluria del labbro e del mento. Tanta verità serve a rendere “più vero” il significato della scena: la salvezza è il risultato di una scelta; e la santità non è necessariamente il premio di una vita integerrima ma l’esito di un incontro, anche tardivo, dell’uomo con Dio.
Tra gli affreschi del Convento di San Marco dobbiamo ricordare anche la bellissima Crocefissione con san Domenico, nel Chiostro di Sant’Antonino. Qui, l’Angelico dipinse cinque lunette e, appunto, questo grande Crocifisso, che solo successivamente fu corredato di una cornice marmorea. Contro lo sfondo di un intenso cielo azzurro, un Cristo dal fisico magro e forte troneggia sulla croce.
L’evidenza plastica del suo corpo è certamente uno degli omaggi più convinti di Beato Angelico alla pittura di Masaccio. San Domenico, inginocchiato, abbraccia teneramente il patibolo del Redentore, quasi intriso del sangue copioso che sgorga dalle ferite, e alza gli occhi per guardare Gesù. Il significato dell’opera è evidentemente di natura simbolica: è, nel contempo, la rappresentazione dell’incontro di un uomo con il Dio incarnato e un invito a meditare sui dolori di Cristo e a condividerne la sofferenza.
Il tipico stile di Beato Angelico, “devoto e moderno”, è riconoscibile anche nelle sue celebrate pale d’altare, tra cui spicca la Deposizione. Quest’opera fu commissionata da Palla Strozzi (lo stesso ricchissimo mecenate di Gentile da Fabriano) inizialmente al pittore Lorenzo Monaco per la cappella di famiglia della Chiesa di Santa Trinita (progettata da Ghiberti). Lorenzo fece in tempo a dipingere le cuspidi triangolari ma poi morì. Il magnate girò allora l’incarico a Beato Angelico: secondo alcuni studiosi nel 1432, secondo altri (che si appellano ai dati stilistici) intorno al 1438.
Seguendo, non a caso, l’esempio di Gentile da Fabriano, il pittore domenicano scelse di raffigurare un’unica scena sotto le tre arcate della cornice già sagomata. Gli archi a sesto acuto scandiscono però la composizione, che si divide in tre parti: Cristo deposto al centro, Maria con le pie donne a sinistra e uomini con i simboli della Passione a destra. I tre gruppi vengono unificati da due assi obliqui ideali: uno formato dal corpo di Gesù e dalla Maddalena, l’altro costituito da due uomini che sorreggono il Cristo e dalla figura del donatore inginocchiato.
La composizione del dipinto è ampia e composta, accortamente calibrata dalle pose dei personaggi e ritmata dai toni di rosso, che segnano la veste della Maddalena e di un componente della famiglia Strozzi (forse il beato Alessio), il rivolo di sangue sulla croce, i cappelli degli uomini, i tetti della città sullo sfondo. Non v’è dramma, né dolore o passione in questo quadro, che si configura come una meditazione devota sul tema della morte di Cristo.
Angelico fu grandemente apprezzato dai suoi contemporanei, e non solo italiani. Ad esempio, il pittore fiammingo Rogier van der Weyden lo prese a modello. Agli Uffizi è intatti conservata una tavola di van der Weyden, il Compianto e sepoltura di Cristo, meglio noto come Deposizione degli Uffizi, realizzato verosimilmente durante il soggiorno in Italia di questi, quindi tra il 1449 e il 1450. Appartenuta ai Medici, che probabilmente la commissionarono per la cappella della loro villa di Careggi, la tavola ha per soggetto il compianto di Cristo, svolto però davanti al sepolcro e non sotto la croce.
Gesù, alle cui spalle si apre un grande loculo rettangolare, è tenuto verticalmente da Giuseppe d’Arimatea (calvo e barbuto) e da Nicodemo (più giovane, con lo sguardo rivolto allo spettatore), entrambi sontuosamente vestiti; sia Maria sia Giovanni Evangelista gli tengono una mano, aprendogli le braccia come al momento della crocifissione. La Maddalena è inginocchiata ai suoi piedi. Tradizione vuole che Giuseppe e Nicodemo abbiano le fattezze, rispettivamente, di Cosimo il Vecchio e dell’artista medesimo.
Lo schema generale di quest’opera è ripreso da un’altra Deposizione, una piccola tavola (oggi a Monaco) dipinta nel 1440 dal Beato Angelico per la predella della sua Pala di San Marco, e che il fiammingo poté ammirare dietro l’altar maggiore della Chiesa di San Marco a Firenze.
Dalla tavoletta di Beato Angelico, van der Weyden trasse esplicitamente sia la posizione del Cristo (che in questo caso è sostenuto dal solo Nicodemo), della Vergine e di san Giovanni, sia il motivo dominante del sarcofago orizzontale e della massa rocciosa, che focalizzano il campo visivo dell’intera composizione. Mentre, però, il maestro italiano scelse forme semplificate che rendono la scena nobile e solenne, l’artista fiammingo rese la sua composizione più articolata, inserendo le altre due figure e introducendo una pietra sepolcrale obliqua, in luogo della Sindone che Angelico aveva immaginato stesa per terra e in prospettiva centrale.
Inoltre, van der Weyden non rinunciò alla resa quasi maniacale di ogni dettaglio, come quella dei fiori e delle piantine in primo piano o del paesaggio sullo sfondo, presentato in maniera quasi lenticolare.
Affresco Alte Pinakothek Beato Angelico Pittori del Quattrocento Tempera