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Da Patini a Verga a Marx: l’alienazione dei vinti
Raccontare la miseria e lo sfruttamento degli ultimi.
Autore: Giuseppe Nifosì Pubblicato in Realismo ed Impressionismo – Data: Marzo 25, 2021 0 commenti 13 minuti
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Nel corso dell’Ottocento, l’insoddisfazione per l’autoritarismo delle classi dirigenti, unita alla crescente consapevolezza dei problemi che affliggevano la società contemporanea, favorì la formazione di ampie sacche di dissenso. L’idealismo umanitario settecentesco cedette il passo a pressanti richieste di riforme politiche e sociali, che si scontrarono con l’intransigente opposizione delle élites dominanti. Da Patini a Verga a Marx: l’alienazione dei vinti.

Attraverso accesi e appassionati dibattiti si analizzarono le conseguenze positive e negative dell’industrializzazione, si criticarono il benessere dell’alta borghesia e l’eleganza dei nuovi quartieri residenziali, si denunciarono la miseria delle classi lavoratrici e la degradazione dei bassifondi. Nel 1848 fu pubblicato il Manifesto del Partito Comunista dei filosofi ed economisti tedeschi Karl Marx e Friedrich Engels.

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Tutti questi temi ispirarono le opere letterarie del Naturalismo in Francia e del Verismo in Italia e, nel campo delle arti figurative, sollecitarono lo sviluppo della cosiddetta “pittura del vero”. Il proletariato, in lotta per eliminare ogni disuguaglianza tra le classi sociali, divenne fra i soggetti preferiti di scrittori e artisti e ispirò opere capaci di stigmatizzare l’ingiustizia sociale dello sfruttamento e affermare il significato etico del lavoro. Pescatori, contadini, prostitute, lavandaie, straccivendoli, mendicanti, ubriaconi, ferrovieri e minatori divennero, così, i protagonisti di racconti, romanzi, stampe e dipinti.

Patini

In Italia, l’abruzzese Teofilo Patini (1840-1906), attivo a Napoli, fu sempre interessato ai problemi sociali del suo tempo, passando dalla pittura di genere a un Verismo di denuncia sociale. Tra il 1883 e il 1886 realizzò tre dipinti che costituiscono una sorta di “trilogia di denuncia sociale”: L’erede, Vanga e latte e Bestie da soma.

Teofilo Patini, L’erede, 1880. Olio su tela, 100 x 140 cm. Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea.

Nel primo dipinto, L’erede, ispirato ad un episodio avvenuto realmente a Castel di Sangro, un uomo muore lasciando in lacrime la moglie e il figlio neonato, «erede di lavoro, di sofferenza e di miserie», come scrisse l’artista. Questo quadro era la «semplice e pura manifestazione di un vero che mi circonda», la schietta e brutale certificazione di una realtà che sembrava ineluttabile e che avrebbe dovuto contenere «il germe delle grandi riforme sociali». L’immagine di tanta miseria era disturbante; ma, d’altro canto, l’intento dell’artista era proprio quello di «urtare i nervi delicati di chi porta guanti e calze di seta».

Teofilo Patini, L’erede, 1880. Particolare del bambino.

Vanga e latte

Anche il tema di Vanga e latte, che invece rappresenta una famiglia di contadini al lavoro, fu interpretato all’epoca come una forma di denuncia politica, una presa di posizione sulla questione agraria, ben lontana dall’essere risolta a vent’anni dall’Unità d’Italia. La famiglia contadina è ritratta in aperta campagna, nella limpidezza del primo mattino.

Teofilo Patini, Vanga e latte, 1883-84. Olio su tela, 2,13 x 3,72 m. Roma, Palazzo dell’Agricoltura.

L’uomo è intento a vangare, con strumenti di lavoro molto semplici, un terreno arido e difficile da coltivare, pieno di sterpi e stoppie. La donna, interrotto momentaneamente il lavoro, siede in terra per allattare il figlio neonato. Si notano i pochi oggetti che appartengono alla coppia e che ne descrivono la vita quotidiana: la culla e l’ombrello posto a ripararla, la sella imbottita per il mulo, la piccola botte, la giacca, il cappello e il piatto di polenta con le due posate di legno. La critica ha voluto accostare quest’opera all’Angelus del pittore realista francese Millet, leggendovi una riflessione sulla vita degli umili.

L’Angelus di Millet

Jean-François Millet, L’Angelus, 1858-59. Olio su tela, 55 x 66 cm. Parigi, Musée d’Orsay.
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Il vangatore dovrebbe incarnare la fatica dei contadini che lottano per guadagnarsi il sostentamento quotidiano. La donna, teneramente descritta nelle sue vesti logore e nell’oro che le orna l’orecchio, è una sorta di “Madonna del latte” che accetta con rassegnazione una vita di stenti e fatiche. Il bimbo che succhia avidamente il seno della madre allude alla disperata energia vitale necessaria per sopravvivere in quelle condizioni.

Teofilo Patini, Vanga e latte, 1883-84. Particolare della donna con il bambino.

In realtà, l’adesione sentimentale di Millet alla questione contadina ha qui lasciato il posto a un’interpretazione “verista”, dunque rigidamente oggettiva, della realtà, osservata con un’ottica quasi distaccata che rimanda alle opere dello scrittore Giovanni Verga. È certamente vero che nelle opere di Patini, come nei quadri di Millet e nei romanzi di Verga, il tema dell’unione familiare, necessaria per contrastare le avversità della vita, viene presentato come un valore fondamentale.

Teofilo Patini, Bestie da soma, 1886. Olio su tela, 2,44 x 4,16 m. L’Aquila, Palazzo del Governo.

Bestie da soma

Il dipinto Bestie da soma ritrae alcune donne (una delle quali anziana e un’altra incinta) che, distrutte dalla fatica, scendono dai monti cariche di legna da ardere. Il titolo di quest’opera, già da solo, rimanda alle disumane condizioni di vita a cui i contadini erano costretti. Quello di portare carichi così pesanti era un lavoro riservato agli animali, soprattutto i muli. Non era tuttavia inconsueto che uomini e donne, nell’Italia povera del XIX secolo, si facessero carico di tale ingrato compito.

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Queste donne, che avrebbero dovuto ricevere protezione, una in quanto vecchia e l’altra perché prossima a partorire, erano dunque ridotte a lavorare come animali. Nel dipinto, infine, la mancata vista dell’orizzonte e del cielo sembra indicare che secondo l’artista non c’era speranza di futuro per queste povere persone, vinte dal destino e da una società indifferente alla loro sorte.

Teofilo Patini, Bestie da soma, 1886. Particolare.

Da Patini a Verga

Quella di Patini fu un’interpretazione rigidamente oggettiva della realtà, osservata con un’ottica quasi distaccata che rimanda alle opere dello scrittore e drammaturgo Giovanni Verga (1840-1922), considerato il maggiore esponente del Verismo letterario. L’obiettivo principale che si era posto anche Verga, in quanto verista, era stato, infatti, quello di raccontare la vita dei suoi personaggi, solitamente tratti dalle classi sociali più disagiate, rimanendo fedele al “vero” delle situazioni e dei fatti, senza alterazioni di sorta.

Tale obiettivo poteva essere raggiunto solo attraverso “l’impersonalità” dell’autore, la cui presenza nella narrazione non deve essere percepita dal lettore. Verga tratta del duro mestiere del vivere nell’Italia, soprattutto meridionale, povera e misera dell’Ottocento. Alla narrazione dei fatti fa da sfondo la realtà avversa che infierisce sugli umili, costretti a lottare per la propria sopravvivenza. Si tratta di una lotta impari, secondo Verga, giacché per chi nasce in una certa condizione sociale il cambiamento non solo è impossibile ma perfino inaccettabile.

Ritratto fotografico di Giovanni Verga, XIX secolo.

L’ideale dell’ostrica

Chi prova a ribellarsi al suo destino è destinato al fallimento. Per questo, gli sventurati personaggi di Verga (contadini, pastori, braccianti, pescatori, minatori ma pure piccoli borghesi di campagna), così come quelli di Patini, si mostrano rassegnati alla sorte che è loro toccata. È ciò che Verga definisce “l’ideale dell’ostrica”, ossia l’attaccamento tenace della povera gente allo scoglio sul quale la fortuna li ha lasciati cadere. Sempre in Verga, così come in Patini, i legami familiari si rivelano fondamentali: anzi, per lo scrittore, la difesa dell’identità familiare prevale sulle esigenze e sui voleri di ogni singolo componente.

Un fotogramma del film La terra trema di Luchino Visconti del 1948, tratto da I Malavoglia di Verga.

I vinti

Giacché vengono regolarmente battuti dalla vita e dal progresso, di cui sono vittime inconsapevoli, Verga definisce i suoi personaggi “vinti” e chiama “Ciclo dei vinti” il progetto di cinque romanzi, dei quali solo due furono completati: I Malavoglia e Mastro-don Gesualdo. Egli scrive che tutti «sono altrettanti vinti che la corrente ha deposti sulla riva, dopo averli travolti e annegati, ciascuno colle stimate del suo peccato».

Un fotogramma del film La terra trema di Luchino Visconti del 1948, tratto da I Malavoglia di Verga.

Vinti sono, senza dubbio, anche i personaggi di Patini e di altri pittori veristi e realisti. Tuttavia, a differenza di quanto avviene in certa arte figurativa, manca nell’opera verghiana l’intento di denuncia politica. Verga non usa i suoi racconti come strumento di lotta sociale, in difesa degli ultimi, e nemmeno assume una posizione conservatrice: egli si limita a osservare e descrivere il vero, che reputa ineluttabilmente immutabile.

Uno scorcio del mare di Aci Trezza, dal film La terra trema di Luchino Visconti, tratto da I Malavoglia di Verga.

Von Menzel: raccontare il lavoro

In tutta l’Europa, la pittura del vero riservò molta attenzione alla rappresentazione del lavoro contadino e operaio: un lavoro durissimo stressante e mortificante, che riduceva i lavoratori a macchine, condannandoli a gesti meccanici e ripetitivi. I protagonisti di due capolavori del Realismo francese, ossia Gli spaccapietre di Courbet e Le spigolatrici di Millet, rompono pietre o raccolgono spighe da terra tutto il giorno, spossando il proprio fisico e alienando la propria persona, annullando ogni tratto di personalità. Come le “bestie da soma” di Patini, essi devono solo faticare, fino alla propria autodistruzione.

Gustave Courbet, Gli spaccapietre, 1849. Olio su tela, 1,59 x 2,59 m. Già a Dresda, Gemäldegalerie. Distrutto durante la Seconda guerra mondiale.
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Jean-François Millet, Le spigolatrici, 1857. Olio su tela, 83,5 x 110 cm. Parigi, Musée d’Orsay.
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La fonderia

Il Germania, il pittore Adolph von Menzel (1815-1905) dipinse La fonderia, tra il 1872 e il 1875. In una fabbrica che sembra l’antro di Vulcano, gli operai sono impegnati in un lavoro febbrile. Il dipinto riesce a rendere con efficacia l’atmosfera di quel contesto lavorativo, saturo di vapori e fuliggine, arso da un calore infernale, reso quasi invivibile dal rumore assordante dei magli che battono sul metallo, delle ruote che cigolano e del vociare concitato degli uomini. Da un lato, si coglie, in quest’opera, una certa volontà di esaltare il lavoro dell’acciaieria, ossia dell’industria che rendeva grande la Germania imperiale.

Adolph von Menzel, La fonderia, 1872-1875. Olio su tela, 1,58 X 2,54 m. Berlino, Nationalgalerie.

In tal senso, Menzel sembra volersi proporre come un efficace cronista della nuova era industriale. Tuttavia, emerge dal dipinto anche un’altra verità: il lavoro operaio è, con tutta evidenza, massacrante. In quella fonderia, gli uomini sono come macchine fra le macchine; non sono riconoscibili individualmente, vengono totalmente identificati dal lavoro che stanno svolgendo. È «l’altra faccia del progresso a cui non si può non pensare osservando gli operai dipinti da Adolph von Menzel», osserva lo storico Alberto Mario Banti. D’altro canto, «i progressi dell’Occidente del XIX secolo (e anche dopo, per la verità) sono fatti così: straordinari ma molto disugualmente distribuiti».

Ritratto fotografico di Karl Marx, 1875.

Da von Menzel a Marx

Questa medesima realtà fu letta in termini esplicitamente sociali dal filosofo ed economista Karl Marx (1818-1883), il cui pensiero fu decisivo per la nascita delle ideologie comuniste tra XIX e XX secolo. Marx affrontò i temi dell’alienazione dei lavoratori e del disagio del proletariato nella civiltà industriale e identificò il proletariato con la classe sociale contrapposta alla borghesia, poiché oppressa e dominata all’interno del sistema di produzione capitalista.

Compongono tale classe sociale tutti gli individui che non posseggono capitali e neppure mezzi di produzione. Essi dispongono solamente della propria forza-lavoro che, per sopravvivere, sono costretti a vendere sul mercato come se si trattasse di una merce. Marx era anche convinto che quando avrebbe preso coscienza della propria condizione di sfruttamento, il proletariato avrebbe avviato una lotta di classe abbattendo il capitalismo medesimo.

Un fotogramma del film Tempi moderni di Charlie Chaplin, 1936.

Marx individuò quattro cause dell’alienazione operaia: 1) l’alienazione rispetto al prodotto della sua attività (egli produce un oggetto che non gli appartiene); 2) l’alienazione rispetto all’attività medesima (il lavoro operaio è strumento di fini estranei al lavoratore); 3) l’alienazione rispetto alla propria essenza (il lavoro dell’operaio non è libero e costruttivo ma forzato e ripetitivo); 4) l’alienazione rispetto al prossimo (il capitalista, che sfrutta l’operaio per incrementare il proprio profitto).

Il capitale

Spiega infatti Marx nella sua opera fondamentale, Il capitale (il cui primo libro viene pubblicato nel 1867, gli altri postumi): «Abbiamo finora considerato l’alienazione, l’espropriazione dell’operaio solo secondo un lato: quello del suo rapporto con i prodotti del suo lavoro. Ma l’alienazione non si mostra solo nel risultato, bensì anche nell’atto della sua produzione, dentro la stessa attività producente. […] In che cosa consiste ora l’espropriazione del lavoro? Primariamente in questo: che il lavoro resta esterno all’operaio, cioè non appartiene al suo essere, e che l’operaio quindi non si afferma nel suo lavoro, bensì si nega, non si sente appagato ma infelice, non svolge alcuna libera energia fisica e spirituale, bensì mortifica il suo corpo e rovina il suo spirito».

Un fotogramma del film Tempi moderni di Charlie Chaplin, 1936.

Con la celebre frase conclusiva del Manifesto del Partito Comunista, diventata uno dei più celebri motti politici della storia, ossia “Proletari di tutti i Paesi, unitevi!“, Marx esortò i membri della classe operaia a combattere il capitalismo per vincere la lotta di classe. Un auspicio magistralmente sintetizzato dal Quarto Stato di Pellizza da Volpedo, non a caso diventato poi l’immagine simbolo di un partito politico, ossia del Partito Socialista Italiano.

Giuseppe Pellizza da Volpedo, Il quarto stato, 1901. Olio su tela, 2,85 x 5,43 m. Milano, Museo del Novecento.
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