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Paul Gauguin (1848-1903) è stato uno degli artisti più interessanti del tardo Ottocento. Fu uomo dalla personalità complessa, inquieto e perennemente insoddisfatto, geniale, arrogante, egoista, sognatore. Detestò la vita cittadina e l’ipocrisia della società contemporanea, con i suoi costumi, la sua morale, i suoi stili di vita nei confronti dei quali mostrava uno sprezzante disinteresse.
Questa polemica contro la società borghese era stata già condotta dagli artisti e dai letterati romantici nei primi anni del secolo ma si era tendenzialmente risolta in un atteggiamento ribelle piuttosto che in una convinzione radicale. Dagli anni Settanta dell’Ottocento, tale polemica si era invece avvalsa di ragioni sempre più specifiche e risentite. La società appariva irrimediabilmente perduta.
Molti pensatori e artisti dell’epoca stavano recuperando l’ideale predicato dal primitivismo, una corrente di pensiero settecentesca che celebrava il mito del “buon selvaggio”, nella convinzione che, in origine, l’uomo fosse un “animale” buono e pacifico, solo successivamente corrotto dalla società e dal progresso. L’adesione a questa teoria sulle sorti della società moderna si tramutava in un veicolo per evadere da essa, respingendo la brutalità del mondo moderno.
È quanto avrebbe fatto anche Gauguin. In lui c’era un’acredine vera e profondamente sentita verso la società del suo tempo, «criminale, male organizzata» e «governata dall’oro»; egli sentiva un disprezzo autentico nei confronti della «lotta europea per il denaro» e pensava che anche il cristianesimo avesse avuto il torto di «abolire la confidenza dell’uomo in sé stesso e nella beltà degli istinti primitivi». L’esotismo della sua pittura non avrebbe avuto il tono di una semplice divagazione ma un chiaro e acceso significato di denuncia. Gauguin avrebbe tentato questa evasione in due direzioni: prima rincorrendo il mito della spiritualità popolare, nei suoi due soggiorni in Bretagna; poi ricercando il mito del primitivo incorrotto, con i suoi due viaggi a Tahiti e con la scelta di morire, lontano da tutti gli affetti, in un’isola delle Marchesi.
Il bisogno di arricchire la propria opera di risonanze più profonde, la ricerca di contenuti che incontrassero la sua «terribile smania di cose sconosciute», l’esigenza di fare affiorare quella parte di sé che sentiva ancora ignota spinsero infatti Gauguin a cercare terre lontane. La scelta cadde, nel 1891, su un’isola del Pacifico, Tahiti, la più grande dell’arcipelago della Polinesia, presentata dagli opuscoli dedicati alle colonie francesi in Oceania come la terra dei sogni. Fu così che Gauguin abbandonò tutto e partì alla ricerca del suo “paradiso perduto”, abitato da selvaggi buoni che sarebbero diventati i protagonisti inconsapevoli della sua nuova stagione artistica.
Certo, erano molti gli intellettuali e gli artisti che, in quell’epoca, sognavano di evadere da una società che consideravano brutale, per cercare una felicità innocente e incontaminata. Gauguin, però, lo fece, e diede alla sua impresa un carattere, per così dire, esemplare. Si consideri che, a quei tempi, andare ai tropici non era propriamente una passeggiata; per arrivare a Tahiti, per esempio, occorrevano 63 giorni di viaggio. Quella di Paul, insomma, fu una vera e propria scelta di vita. Tahiti non era poi quel paradiso che gli opuscoli dipingevano (per esempio, era infestata dalle zanzare), ma Gauguin la elevò ugualmente a “luogo dell’anima”: qui si riscoprì felicemente barbaro, selvaggiamente libero.
Come artista, egli seppe trarre da quel suo soggiorno tahitiano l’energia e l’audacia per superare, con uno scatto liberatorio, tutti i mezzi espressivi della tradizione europea. Con la sua sintesi di colore e di segno, creò un’altra realtà, finalmente in sintonia con la parte più autentica, arcaica e primitiva di sé stesso. I suoi colori, densi, sordi, teneri e delicati a un tempo, acquistarono nuove risonanze, musicali e affettive.
Non è possibile individuare un percorso lineare nelle tele dipinte durante il soggiorno tahitiano, né per quanto riguarda lo stile né per i temi e i contenuti. In quella lunga fase di grande ricchezza innovativa e inventiva, Gauguin esplorò molte direzioni e, come sempre, non fu sistematico. Egli dipinse soprattutto donne, colte in atteggiamenti statici, pervase dalla placida quiete che accompagnava la loro vita, oppure ritratte sulla spiaggia o mentre si bagnano.
In generale, le donne polinesiane di Gauguin sono trasfigurate, viste sotto una luce magica e mitica: nella loro purezza, appaiono come divinità arcaiche, misteriose, imperturbabili. Sono l’emblema della Grande Madre, il simbolo dell’unione primigenia che l’uomo ha con la terra. In tutti questi quadri, poi, il mare, la natura, i costumi, le capigliature danno lo spunto per produrre forme stilizzate, arabeschi lineari, andamenti decorativi.
Questi capolavori polinesiani di Gauguin sono molto ricercati sul mercato. Nel febbraio del 2015, la tela Quando ti sposerai? è stato venduto per quasi trecento milioni di dollari (circa 265 milioni di euro), diventando a questa data l’opera più costosa della storia.
In Ave Maria, del 1891-92, Gauguin propose una interpretazione indigena del tema della Madonna col Bambino, fondendo ambientazione esotica, iconografia cristiana e simbologia pagana. Inoltre, egli vi riunì (rielaborandoli) tre motivi iconografici cristiani diversi: l’Annunciazione, la Natività e l’Adorazione del Bambino. Riconosciamo a sinistra un angelo dalle ali gialle, il quale indica a due tahitiane adoranti la Madonna vestita con un pareo rosso che tiene un Gesù ragazzino sulle spalle. A un primo impatto un quadro del genere potrebbe apparire irrispettoso della religione cattolica. In realtà, Gauguin ricercava una sacralità universale, che trascendeva le singole religioni per identificarsi con l’amore che unisce tutti gli esseri viventi.
Durante il suo soggiorno a Tahiti, Gauguin manifestò un marcato interesse verso la mitologia dei Maori, la popolazione indigena, il cui costume armonizzava il culto monoteista con una religione popolare politeista. L’affascinante spiritualità dei Maori si conciliava con il suo profondo sentimento del sacro, proiettato dalla sua pittura in una dimensione lontana e carica di mistero. Lo spirito dei morti veglia, realizzato nel 1892, illustra un’antica credenza di questo popolo: l’apparizione, nelle tenebre, dello spirito dei morti, qui rappresentato dalla figura scura incappucciata che Gauguin, assecondando il suo gusto per la contaminazione di forme e linguaggi, ha rappresentato secondo i modi dell’arte egizia, con il volto di profilo e l’occhio frontale.
L’opera deriva la sua forza espressiva e la ricchezza del suo significato dall’impatto visivo che lo spettatore ha con la donna spaventata nel buio, il cui nudo sdraiato richiama l’Olympia di Manet: «è un nudo un po’ indecente», ammise lo stesso Gauguin. Ma non era un’indecenza fine a sé stessa. Il corpo sensuale della giovane polinesiana simboleggia l’innocenza e la genuinità che dovrebbe appartenere a tutti gli uomini e che invece è rimasta una prerogativa dei popoli primitivi. Anche i colori assumono precisi significati simbolici: il giallo richiama la luce, il giorno; il viola del fondo evoca invece la notte e la paura della morte.
Gauguin aveva grande considerazione per un suo dipinto, intitolato: Come! Sei gelosa? In una lettera a un amico scriveva: «Ho fatto ultimamente un nudo a memoria, due donne sulla spiaggia, credo che sia anche la mia cosa migliore fino ad oggi». Lo stesso artista raccontò che il soggetto fu tratto da una scena cui aveva personalmente assistito: «sulla spiaggia due sorelle che avevano appena fatto il bagno, distese in voluttuosi atteggiamenti casuali, parlano di amori di ieri e di progetti d’amore di domani. Un ricordo le divide: “Come! Sei gelosa?”». Con opere come questa, Gauguin voleva proprio esprimere l’innocenza degli indigeni, che vivevano una sessualità non repressa, immune da sensi di colpa e tale da arricchire l’amore di una profonda sacralità. «È chiaro che i selvaggi sono migliori di noi», ebbe a scrivere l’artista.
Come! Sei gelosa?, con tutta evidenza, non si limita semplicemente a illustrare l’episodio ma lo rielabora, trascurando i valori descrittivi a vantaggio di quelli esclusivamente pittorici. Gauguin ha veduto e rammenta le due ragazze sulla spiaggia ed è proprio nella sua memoria che si svela il senso della scena di cui è stato spettatore involontario. Le due donne sono raccolte in un colloquio muto ed enigmatico, perché ambientato in un luogo reso mitico e primordiale dalla scelta di colori innaturali. La sabbia infatti è rosa, i riverberi dell’acqua sono chiazze colorate di grigio, nero, arancio e ocra.
Da un punto di vista prettamente compositivo, le due ragazze appaiono l’una come il rovescio dell’altra. La prima, distesa, è pienamente illuminata dal sole. La seconda, più inquieta e misteriosa, è accoccolata, appoggiata sul braccio destro e quasi completamente in ombra. Le teste delle due donne sono agli estremi della stessa direzione; i loro corpi sembrano fusi in una massa compatta, in parte chiara e in parte scura. Al perizoma rosso della fanciulla sdraiata corrisponde la veste rossa a fiori dell’altra. I capelli della ragazza seduta, raccolti dietro la nuca, sono fermati da un nastro azzurro; una ghirlanda di fiori bianchi le cinge la testa. Il suo volto e il suo corpo bruno, trattati sinteticamente, sprigionano una forte carica erotica.
Nel 1897, durante il suo secondo soggiorno tahitiano, Gauguin volle realizzare una tela che aveva in mente da tempo e alla quale lavorò febbrilmente per un mese intero. Si tratta della sua opera più grande, intitolata: Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo? Realizzato senza studi preparatori e bozzetti, questo quadro non nacque da un cosciente lavoro di elaborazione mentale ma, come ricordò lo stesso Gauguin, da «uno stato di vaga sofferenza e sensazione dolorosa di fronte al mistero incomprensibile della nostra origine e dell’avvenire».
Gauguin, nel concepirlo, sembrò voler ricapitolare la propria pittura precedente e pagare il suo debito nei confronti della contemporanea cultura figurativa europea. Utilizzò figure e motivi già presenti in altri suoi quadri e li ordinò in una scena monumentale. Il dipinto, che oggi si trova a Boston, è stato esposto solamente due volte in Europa: a Parigi, alla fine del XIX secolo, e a Genova, nel 2011.
L’opera va letta da destra a sinistra, all’orientale. La composizione richiama il fregio arcaico di un tempio e segue controllate rispondenze di verticali e orizzontali. Tutte le figure, delimitate da un netto contorno nero, sono praticamente prive di chiaroscuro e non proiettano ombre. La stesura uniforme del colore richiama le vetrate delle cattedrali gotiche.
All’estrema destra sono raffigurati un neonato e tre donne sedute; il piccolo sembra abbandonato, ignorato dalle tre ragazze che appaiono piuttosto concentrate su sé stesse, compiaciute dalla propria bellezza. A seguire, due figure femminili, vestite di porpora, si confidano i propri pensieri. Una grande figura accovacciata leva il braccio e le guarda con stupore. Questi ultimi personaggi sono simbolo dei tormenti e delle domande che vivono nell’animo di ognuno e che spesso si cerca di ignorare.
Il giovane al centro (unico personaggio maschile), che ricorda il Mercurio della Primavera di Botticelli – un dipinto che Gauguin doveva avere bene in mente – sta cogliendo un frutto; il gesto richiama il peccato originale ma è anche metafora della gioventù che sa cogliere la parte migliore dell’esistenza; più in generale, sottolinea il rapporto diretto tra l’uomo e la natura. Sarebbe questo il significato più probabile della fanciulla in basso, che mangia un frutto tra due gatti bianchi e una capra nera. La divinità posta al centro della parte sinistra, con le braccia alzate come per additare l’aldilà, rinvia alle culture orientali e richiama l’inutilità e la falsità della bugia religiosa. Una ragazza, seduta e seminuda, pare ascoltare l’idolo.
La vecchia accucciata in un angolo, in posizione fetale e con le mani sul volto (una posizione tipica delle mummie peruviane precolombiane), sembra in attesa della morte. L’uccello bianco che tiene una lucertola fra le zampe rappresenta la vanità delle parole e chiude la lettura del dipinto. La vegetazione dello sfondo, che richiama il Giardino dell’Eden, è raffigurata in maniera sintetica, i rami si configurano come arabeschi e i colori sono antinaturalistici: predominano, infatti, il blu-verde e il giallo-arancio.
Il titolo, spiegò Gauguin, fu aggiunto a lavoro ultimato: le tre domande, scritte in un angolo, sembrano destinate a rimanere senza risposta e rendono il soggetto misterioso. È tuttavia evidente che Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo? costituisce una metafora dell’esistenza. Nella successione delle immagini, infatti, possiamo riconoscere l’umanità nei diversi stadi della vita: dall’infanzia (rappresentata dal bambino sulla destra), alla giovinezza (le figure al centro) e alla vecchiaia (l’anziana sulla sinistra). Questa umanità, immersa in una natura non determinata e primordiale, sembra vivere nella condizione di una rassegnata e pacifica inconsapevolezza. Il significato del dipinto, il cui titolo pone i più alti quesiti esistenziali dell’uomo, è insomma simbolico e universale.
Lo stesso Gauguin lo definì «un’opera filosofica». Il silenzio di cui la scena è permeata, gli sguardi malinconici dei personaggi che sembrano incapaci di comunicare fra di loro suscitano nello spettatore un senso di inquietudine e di ansia. D’altro canto, il quadro fu dipinto in un momento tormentato della vita di Gauguin: il pittore era malato di cuore e aveva contratto la sifilide, era perennemente in lotta con le autorità locali, si sentiva artisticamente isolato e da pochi mesi era morta sua figlia Aline. Egli stesso, dopo aver completato l’opera, tentò di uccidersi. Il quadro, quindi, si configura come il suo testamento spirituale.
Gauguin non è fuggito dalla vita borghese o dalla civiltà industrializzata; il suo viaggio e la sua pittura sono un itinerario a ritroso del suo tempo, alla ricerca di quelle sensazioni tattili, cromatiche, saporose e sensuali che lui recepì giovannissimo quando, nel primo anno di vita, attraversò l’Atlantico per giungere con la madre in un paradiso di sensazioni fortissime che non dimenticherà mai e cercherà sempre.