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Pietro Cavallini fu senza dubbio il più grande pittore romano di epoca gotica. Poco o nulla conosciamo di lui, abbiamo notizie della sua attività solo tra il 1273 e il 1330. Formatosi nell’ambito della cultura bizantina, Cavallini si ricollegò esplicitamente alle fonti tardoantiche, elaborando uno stile capace di coniugare la morbidezza dei tratti orientali con la rappresentazione tridimensionale dei corpi, ottenuta attraverso un accorto dosaggio dei chiaroscuri. Nella sua pittura, la rappresentazione della figura umana raggiunse una nuova naturalezza classicheggiante.
Cavallini lavorò, a Roma, in quasi tutte le basiliche maggiori, tra cui San Paolo fuori le Mura, San Pietro in Vaticano e San Giovanni in Laterano. Tali edifici, tuttavia, sono stati distrutti o ristrutturati e gli affreschi del Cavallini sono andati persi. Delle sue opere romane sono rimasti soltanto i mosaici con Storie della Vergine nell’abside di Santa Maria in Trastevere, l’affresco con il Giudizio Universale nella controfacciata della Chiesa di Santa Cecilia in Trastevere, l’affresco absidale di San Giorgio in Velabro con Cristo in gloria e l’affresco con la Madonna e Santi della Tomba del Cardinale Matteo d’Acquasparta in Santa Maria d’Aracoeli.
L’abbattimento (ordinato nel Cinquecento da Giulio II e da Sisto V) della vecchia Basilica di San Pietro e della residenza medievale dei papi, il Palazzo Lateranense e la distruzione per incendio, nell’Ottocento, della Basilica di San Paolo fuori le Mura (la cui navata centrale era stata dipinta dal Cavallini) ha comportato la perdita di vaste pareti affrescate o mosaicate. In San Pietro, al tempo di papa Niccolò IV (1288-1292), Cavallini dipinse Storie di san Pietro e di san Paolo nel portico (ne restano pochi frammenti) e realizzò il mosaico nella sezione centrale della controfacciata.
Su quest’ultima, la cui decorazione è nota solo attraverso copie, si distribuivano, fra un doppio ordine di trifore, le figure di Pietro (con un papa ai suoi piedi), Paolo, Andrea e Giovanni, e, più in basso, i simboli degli evangelisti e ritratti papali racchiusi dentro clipei.
Della vasta decorazione realizzata da Cavallini in San Paolo fuori le Mura tra il 1277 e il 1285 abbiamo un ricordo grazie ad alcune copie eseguite intorno al 1634 per il cardinal Francesco Barberini, poi raccolte nel manoscritto Barberiniano Latino 4406 della Biblioteca Apostolica Vaticana. Gli affreschi si distribuivano lungo la navata centrale su due registri sovrapposti di ventidue riquadri ciascuno, con scene tratte dagli Atti degli Apostoli sulla parete sinistra e scene tratte dall’Antico Testamento sulla parete destra.
Sotto le scene si distribuivano ritratti papali racchiusi dentro clipei, mentre in alto, tra le finestre, si trovavano grandi figure di apostoli e profeti. Alcuni ritratti di pontefici, sopravvissuti all’incendio e staccati, sono conservati nella Pinacoteca annessa alla basilica.
I sei episodi a mosaico con le Storie della Vergine in Santa Maria in Trastevere a Roma furono realizzati fra il 1291 e il 1296 circa su cartoni di Cavallini, nei riquadri della zona inferiore dell’abside. Il ciclo inizia da sinistra con la scena della Natività della Vergine e prosegue con l’Annunciazione, la Nascita di Gesù, l’Adorazione dei Magi, la Presentazione al Tempio per concludersi con la Dormitio Virginis. Lo scomparto dedicatorio, con la Madonna tra i santi Paolo e Pietro e il committente, ossia il cardinale Bertoldo Stefaneschi, ancora nel secolo scorso riportava sia il nome dell’artista sia la data, che, per quanto già rovinate e difficili da leggere, rendono certa l’attribuzione al Cavallini.
In queste scene, tutte commentate da iscrizioni, figure plasticamente concepite, ferme e monumentali, di stampo marcatamente paleocristiano, si muovono liberamente in uno spazio dove campeggiano piccole architetture in scorcio. Tali architetture, però, risultano isolate rispetto al contesto generale, non rappresentano un elemento di sintesi della visione globale e non comportano una vera unità spaziale. L’esaltazione cromatica, il contrasto fra le figure e l’uniforme fondo oro esprimono il mantenimento di forti componenti bizantine; tuttavia, l’uso di tessere minutissime consentì a Cavallini di creare nel mosaico vivaci effetti pittorici e delicati trapassi cromatici.
Il Giudizio Universale nella Chiesa di Santa Cecilia in Trastevere a Roma, generalmente datato intorno al 1293, quindi dopo il ritorno del maestro da Assisi, è considerato l’opera più importante del Cavallini e una delle principali fra quelle prodotte a Roma alla fine del XIII secolo. Faceva parte di un ciclo assai ampio, oggi in gran parte perduto e che un tempo ricopriva la navata centrale della chiesa, con le Storie del Nuovo Testamento a sinistra e le Storie del Vecchio Testamento a destra. Di questi affreschi restano frammenti con l’Annunciazione, San Michele Arcangelo, il Sogno di Giacobbe e l’Inganno di Isacco.
Il Giudizio Universale venne invece dipinto da Cavallini e dai suoi collaboratori sulla controfacciata della chiesa, proprio sopra il portale d’ingresso. Oggi, ne resta soltanto la parte centrale.
Cristo, seduto sul trono in posizione frontale, è circondato da una grande mandorla luminosa e rosseggiante, simbolo della sua divinità, cui fanno da cornice alcuni angeli dalle ali multicolori. Lo affiancano la Vergine e il Battista in piedi e gli apostoli seduti: sei per lato, a fargli da giudici a latere. Sotto queste figure si trovavano, e ne resta traccia, angeli che suonano le trombe con gli eletti a sinistra e i dannati a destra. La parte superiore è completamente persa.
Di tutti i personaggi colpiscono, in particolare, l’impianto monumentale, le forme ampie e plastiche, i morbidi chiaroscuri, i panneggi che evidenziano la volumetria dei corpi, la serenità e la compostezza delle figure, la ricerca di profondità spaziale dei seggi lignei su cui siedono, mostrati di scorcio e convergenti verso il trono frontale di Cristo, con effetto prospettico elementare ma convincente.
Perfino i volti, nonostante gli elementi ereditati dal mondo bizantino (il naso allungato e gli occhi stretti) sono piuttosto caratterizzati e presentano rughe d’espressione.
In particolare, costituisce una novità assoluta proprio la figura del Messia. Egli è certamente autorevole e solenne, come richiedeva il suo ruolo di Giudice supremo; tuttavia, pur esprimendo la massima potenza della propria divinità, questo Cristo non sembra essersi dimenticato di essere stato uomo.
Ammirandone la plastica fisicità, cogliamo in lui un naturalismo e una naturalezza – nella posa, nell’atteggiamento, nell’articolazione delle membra, nell’espressione severa ma dolente del viso (con quelle pupille leggermente spostate alla sua destra) – che non hanno più nulla di ieratico e di sovrannaturale. E d’altro canto, le ferite delle mani, dei piedi e del costato, procurate dalla crocifissione, ancora e perennemente sanguinanti perché mai rimarginate, rendono tangibile e quasi condivisibile, e quindi umanissimo, il dolore provato dal Dio incarnato.
È, questo, un segnale assai evidente che per Cavallini, come per Cimabue e soprattutto per Giotto assieme a lui, era giunto il tempo di superare, o quanto meno forzare le restrizioni oramai secolari dell’arte bizantina.
Le figure di Cristo, di Maria, di Battista e degli apostoli sono immerse in un sontuoso fondo blu, intenso e profondo, che molto richiamava, un tempo, quello giottesco della Basilica di Assisi, oggi assai scialbato. Il baluginante fondo oro bizantino era diventato una convenzione superabile. Le differenze cromatiche delle vesti creano un effetto esteticamente gradevole e variegato: si alternano effetti e sfumature di viola, di rosso, di verde e di blu.
L’affresco absidale con Cristo in gloria, della Chiesa di San Giorgio in Velabro, a Roma, è stato attribuito a Cavallini, che tuttavia fece ampio ricorso ad aiuti. L’opera presenta Cristo al centro della scena, più grande degli altri personaggi, con il braccio destro alzato e la sinistra che tiene un rotolo di pergamena, simbolo della sua Parola (il Verbo). A destra di Gesù si trova la Vergine, rivolta verso il figlio come se volesse intercedere per i fedeli. Dietro di lei, San Giorgio, rappresentato come soldato a cavallo, regge un vessillo con la croce rossa in campo bianco. Un tempo, questo santo era compatrono della chiesa, perché martirizzato, secondo la tradizione, proprio nella zona del Velabro. Alla sinistra di Cristo, San Pietro, che ha la mano destra levata, tiene nella sinistra un rotolo di pergamena e le chiavi; dietro di lui si trova San Sebastiano con lancia e scudo.
Dell’imponente lavoro effettuato da Cavallini nella chiesa romana di Santa Maria in Aracoeli non rimangono che poche tracce. Sappiamo da Vasari che in questo edificio, intorno al 1298, l’artista decorò l’abside, poi demolita nella seconda metà del XVI secolo. È arrivato fino a noi l’affresco della lunetta nella tomba del cardinale Matteo d’Acquasparta, con la Madonna e il Bambino in trono tra i santi Matteo e Francesco. Tipicamente cavalliniana è la monumentale e classicheggiante impostazione delle figure.
Di recente, nella Cappella Baylon, è stato scoperto, dietro una tela seicentesca e architetture ottocentesche, un altro affresco con La Vergine, il Bambino e i santi Giovanni Battista e Giovanni Evangelista, che la critica riconduce alla bottega del Cavallini e che alcuni considerano autografo del maestro. L’affresco potrebbe essere stato realizzato subito prima o in concomitanza con il ciclo di Assisi, tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta del Duecento.
Cavallini lavorò anche fuori Roma. La sua presenza, alla fine degli anni Ottanta del duecento, tra i grandi decoratori della Basilica superiore di Assisi, impegnati sui ponteggi delle Storie del Vecchio Testamento e Storie del Nuovo Testamento, non risulta dai documenti ma oggi è ritenuta molto probabile dalla critica. Il pittore romano, d’altro canto, fu sotto contratto con l’ordine francescano assieme a Cimabue, Giotto e l’artista assisiate Puccio Capanna, ma quale sia stato il suo ruolo rimane ancora un mistero. Difficile escludere una sua significativa presenza ad Assisi. Ricordiamo che, alla fine del XX secolo, gli studiosi Federico Zeri e Bruno Zanardi decisero di attribuire a Cavallini, e non a Giotto, il ciclo con le Storie di San francesco; tuttavia, questa ipotesi non ha avuto seguito.
Un tempo si pensava che il giovane Giotto avesse influenzato lo stile pittorico del più maturo Cavallini; oggi si ritiene, al contrario, che questi fu, con Cimabue, uno dei maestri di Giotto e che dunque il suo contributo allo sviluppo della pittura trecentesca sia stato fondamentale. È chiaro, infatti, che l’arte di Giotto non comparve all’improvviso ad Assisi, come un faro nella notte, ma fu l’espressione più alta, matura e geniale di un fermento volto all’innovazione che si era espresso pienamente già a Roma. Non si deve dimenticare che Roma era il centro della Cristianità e vantava le basiliche più antiche e venerabili.
Con il Cavallini, nella città papale, la pittura di ascendenza aulica e bizantina aveva già cominciato a presentare componenti classicistiche, formali e iconografiche desunte sia dalla tradizione paleocristiana sia dallo studio diretto dell’antico; in particolare, l’artista romano aveva maturato ben prima di Assisi uno spiccato interesse per la resa pittorica dello spazio e del volume corporeo. È dunque assai probabile che accanto a Cimabue anche i pittori della scuola romana abbiano ricoperto un ruolo determinante nella formazione del giovanissimo Giotto, il quale forse conobbe Cavallini già da ragazzino, recandosi a Roma a seguito del suo maestro, e che certamente lo frequentò ad Assisi, entrando nella sua bottega e lavorando accanto a lui, a Torriti e a Rusuti sui ponteggi della Basilica di San Francesco.
Fu quindi Giotto a imparare da Cavallini e non viceversa. Certo, l’opera di Giotto risulta, alla fine, ben più rivoluzionaria di quella cavalliniana: le figure del maestro romano, sebbene dotate di volume, hanno ben poco della compattezza asciutta dei personaggi dipinti dal fiorentino, e il suo linguaggio pittorico è molto più incline ai passaggi cromatici tenui e delicati.
Dal 1308, Cavallini fu sicuramente a Napoli, presso la corte prima di Carlo II d’Angiò e poi di suo figlio, Roberto d’Angiò, ma della sua attività napoletana non è rimasto nulla di attribuibile con certezza. È chiaro, però, che nel corso del suo lungo soggiorno napoletano, durato circa dieci anni, l’artista svolse una vasta attività al servizio dei sovrani angioini. Potrebbe aver lavorato nel Duomo (Cappella Tocco, con figure di santi e apostoli entro architetture dipinte) e nella Chiesa di Santa Maria Donnaregina (navata, arco trionfale e Cappella Loffredo), ma con il largo concorso di alcuni collaboratori, soprattutto di Filippo Rusuti, e, secondo alcuni, anche agli affreschi della Cappella Brancaccio in San Domenico Maggiore, databili al 1308, con Storie dei Santi Andrea e Giovanni, il Martirio di San Giovanni Evangelista, una Crocifissione, le Storie della Maddalena e un Noli me tangere.
Cavallini fu, secondo le fonti, anche scultore. Gli sono state attribuite alcune opere ma il dibattito è ancora aperto. Nella chiesa di San Paolo fuori le Mura, a Roma, potrebbero essere di Cavallini due sculture lignee: un San Paolo e un Crocifisso, oggi nella Cappella del Santissimo Sacramento ma un tempo situato tra l’altare maggiore e l’abside. Quest’opera era particolarmente venerata dal popolo perché si credeva avesse parlato a santa Brigida, regina di Svezia. La paternità cavalliniana di questa scultura, sostenuta dal Vasari, non è però condivisa da tutti gli studiosi, che propendono, in alternativa, per un artista di origini toscane.
Sono stati attribuiti al Cavallini anche il Crocifisso di Santa Maria in Monticelli a Roma e una Madonna con il Bambino, oggi parte di una collezione privata.
E’ un peccato che Cavallini sia poco conosciuto visti i tanti lavori che realizzò. Il fatto che secondo il figlio raggiunse i 100 anni spiega come verso la vecchiaia dovette ricorrere ad aiuti. Dipingere non era un mestiere facile, ricordiamo la fatica di Michelangelo alla Cappella Sistina. Poi le maggiori chiese in cui operò furono, proprio in ragione della loro centralità, ristrutturate, ma basta accostare il suo nome ad Arnolfo di Cambio e si constata come e dove ha lavorato. saluti