Puoi ascoltare il mio podcast su: Apple Podcasts | Google Podcasts | Spotify | Cos'è?
Intorno al 3000 a.C., nel Vicino Oriente e nell’Africa Nord-orientale le caratteristiche geologiche e climatiche del territorio favorirono uno sviluppo economico eccezionale. I territori oggi corrispondenti all’Egitto, alla Siria e all’Iraq, una volta conosciuti come “mezzaluna fertile”, erano bagnati da quattro grandi fiumi: il Nilo, il Giordano, il Tigri e l’Eufrate. Antico Egitto.
Questi straripavano periodicamente e fertilizzavano i terreni vicini depositandovi il limo, un materiale ricco di sostanze minerali. Un efficace sistema di dighe e una fitta rete di canali disciplinavano queste piene, garantendo un’irrigazione razionale ed efficace e creando i presupposti per un’agricoltura avanzata. Tra le civiltà sviluppatesi anticamente nel Vicino Oriente, quella egizia fu la più importante. Essa durò più di tremila anni e la sua cultura artistico-letteraria esercitò un’influenza fondamentale su quasi tutti gli altri popoli orientali e mediterranei, inclusi i Greci e i Romani.
Le regioni bagnate dalle acque del Nilo furono abitate da popolazioni di stirpe egizia già in epoca neolitica. Risalgono infatti a questo periodo i più antichi reperti ritrovati in quei territori, ossia utensili d’uso quotidiano e vasellame di terracotta decorato a motivi geometrici. Secondo la tradizione, intorno al 2900 a.C. un re di nome Menes unificò sotto il suo scettro, in un solo grande Stato, gli antichi regni dell’Alto Egitto a sud e del Basso Egitto a nord, scegliendo come capitale la città di Menfi. Nei secoli successivi, e per quasi tremila anni, il paese fu governato da una lunga serie di dinastie regali.
Gli egittologi hanno diviso la lunga storia egiziana, compresa fra il 3000 e il 332 a.C., in Antico Regno, Medio Regno, Nuovo Regno ed età tarda. Questi grandi periodi di splendore economico e culturale furono intervallati da tre periodi “intermedi”, segnati da crisi politiche e sociali. Dopo il 332 a.C., l’Egitto perse la sua millenaria indipendenza e nel 30 a.C., indebolito dalle continue lotte di successione, divenne una provincia dell’Impero romano.
Le strutture politiche e amministrative dell’Antico Egitto si consolidarono intorno al 2575 a.C. Il vertice dello Stato, rigidamente strutturato, era costituito dal sovrano, o faraone; la gerarchia sociale comprendeva poi, in ordine discendente, gli alti funzionari statali e religiosi, i guerrieri, gli scribi, i mercanti, gli artigiani, i contadini e i servi. Fin dal 2500 a.C., il faraone fu considerato figlio del Sole, e dunque un dio incarnato: in Egitto egli divenne oggetto di venerazione, fu il simbolo dell’unità della nazione, l’emblema del potere politico e religioso, il centro motore di ogni attività. A lui faceva capo anche l’amministrazione della giustizia.
Se pensiamo alla Storia dell’arte come ricerca ininterrotta, come tradizione che tramandandosi da un artista all’altro crea un percorso che conduce fino ai nostri giorni, allora essa non comincia nelle caverne francesi dipinte dai nostri progenitori ma nella Valle del Nilo cinquemila anni fa. I grandi maestri egizi insegnarono ai Greci, e questi ai Romani; e tutta l’arte occidentale, dal XV al XIX secolo, è debitrice della cultura greco-romana. Per questo l’arte egizia è così importante per noi: perché molto di ciò che tendiamo a identificare con “arte” è nato all’ombra delle piramidi.
Per comprendere l’arte egizia dobbiamo partire da una premessa importante: essa ebbe una funzione religiosa e celebrativa. Il suo compito fu quello di esprimere dei concetti e affermare verità immutabili: per questo doveva risultare chiara, comprensibile e universale. La pittura e, in modo minore, la scultura furono concepite come un linguaggio del pensiero che, visivamente, interpretava e riproduceva l’insieme delle credenze magico-religiose e le concezioni politiche del mondo egizio.
I pittori egizi adottarono sempre forme fisse, ispirate alle leggi della geometria, e seguirono un codice regolato da norme rigorose, rimaste immutate per secoli. I loro dipinti, come per esempio la Caccia agli uccelli sul Nilo o anche Nebamon a caccia, dimostrano che la pittura egizia non riprodusse la vita in modo verosimile ma ebbe il compito di descrivere la realtà analizzandola elemento per elemento, al fine di ottenere un risultato chiaro, non equivoco. È un po’ come se l’artista, prima di disegnare la scena, guardasse, idealmente, in direzioni diverse, ottenendo singole visioni parziali che poi ricomponeva tutte insieme, in una sola immagine sintetica. Un insegnamento, acquisito dagli artisti neolitici, di cui, millenni dopo, si sarebbe ricordato assai bene Picasso.
I pittori dell’Antico Egitto, insomma, non copiarono le figure umane dal vero ma dipinsero gli uomini e le donne sintetizzando i loro tratti fisici, tramutandoli in tipi impersonali. Uomini, donne e bambini, mostrati, apparentemente, sempre di profilo, in realtà volgono il busto verso l’osservatore; nelle donne, almeno uno dei seni è rappresentato lateralmente: un artificio utile a definirne la forma in modo più comprensibile. Il bacino è mostrato di tre quarti; le gambe, invece, sono viste di lato ma ambedue dalla parte interna, quella dell’alluce. La gamba avanzata e il braccio teso sono quelli più lontani dallo spettatore, al quale la figura mostra normalmente la parte destra. Il volto, infine, si presenta esattamente di fianco ma con l’occhio frontale. Una simile posizione potrebbe apparirci assurda, se fosse tale, ma, con tutta evidenza, non è una posizione: è, appunto, un sistema di rappresentazione.
E ancora: gli uomini sono dipinti con un colore più scuro, rosso-bruno, mentre le donne sono rappresentate con una pelle giallognola; la giovinezza dei bambini è invece attestata dalla nudità. Soprattutto manca qualunque accenno di chiaroscuro e dunque ogni allusione al volume, alla massa, alla consistenza corporea.
Anche i bassorilievi egizi sono talmente schiacciati da non proiettare ombre; le figure, dunque, non si staccano dal fondo in modo significativo ed essi sono assimilabili a dipinti.
Regole così rigide sono sempre rispettate quando il soggetto da rappresentare è molto autorevole: per esempio gli dèi, i faraoni o le regine, i grandi sacerdoti, gli aristocratici. In questi casi, evidentemente, l’intento dell’artista non era quello di mostrare il loro aspetto fisico ma di mettere in evidenza la loro importanza. Esistono però altri dipinti, come quello della Danzatrice acrobatica, mostrata inarcata nella posizione del “ponte”, o quello della Scena di onoranze funebri, che trasgrediscono le regole che abbiamo appena descritto. I personaggi minori, in questo caso musiciste e ballerine, sono raffigurati con grande naturalezza. Nella Scena di onoranze funebri, per esempio, le danzatrici presentano il busto di profilo e le suonatrici hanno il volto frontale.
Ne deduciamo che le norme erano tassative solo per la rappresentazione degli uomini liberi, dei nobili, dei potenti e ovviamente del sovrano e dei suoi familiari. Invece, la rappresentazione della realtà quotidiana, quella più semplice e umile, non imponeva l’idealizzazione dei personaggi del popolo, dei contadini, dei servi e degli schiavi: al pittore, insomma, era lasciata maggiore libertà di espressione. Ciò valeva anche per la riproduzione degli animali.
Nell’arte dell’Antico Egitto fu del tutto simbolica e convenzionale anche la rappresentazione dello spazio. Gli artisti costruirono le immagini in modo da ottenere un loro sviluppo completo sul piano, e vollero presentare ogni elemento dal punto di vista più caratteristico. Il pittore doveva mostrare le cose nel modo più chiaro possibile. I rapporti proporzionali fra le diverse figure, per esempio, non vennero ricercati secondo regole ottiche (ciò che è più lontano dovrebbe apparire più piccolo) ma secondo un criterio compositivo, detto delle grandezze gerarchiche, che rispecchiava le gerarchie sociali e religiose e che raffigurava quindi più grandi le figure ritenute più importanti.
In un dipinto parietale (ossia su parete) di una tomba tebana, un gruppo di contadini è impegnato nella Raccolta e lavorazione dei cereali. Uomini e donne sono distribuiti su più fasce, come se fossero ribaltati sul piano verticale; sono tutti allineati, uno vicino all’altro, per risultare completamente visibili, e anche le messi e gli oggetti che hanno ammucchiato sono come impilati, per essere maggiormente riconoscibili. Una rappresentazione più rispondente alla normale visione della realtà avrebbe comportato una sovrapposizione delle immagini: ogni cosa sarebbe risultata visibile solo parzialmente, e questo avrebbe contrastato con la funzione religiosa-funeraria dell’opera.
Questo sistema di distribuire le figure su livelli sovrapposti, per cui ciò che si trova sopra in realtà dovrebbe andare dietro (ma se così fosse verrebbe nascosto), è tipico della pittura egizia ma soprattutto di un sistema di rappresentazione a-prospettico che si basa su un processo riproduttivo puramente mentale. Venne adottato dagli artisti neolitici, mesopotamici, cretesi, micenei, in Grecia durante il Medioevo ellenico e, secoli dopo, nella Roma tardoantica e ancora per buona parte del Medioevo. La rappresentazione prospettica di stampo greco-romano, poi recuperata a partire dal Rinascimento, è infatti solo uno dei possibili modi di descrivere la realtà.
Consideriamo un altro celebre esempio, ossia La piscina di Nebamon, la quale è rappresentata dall’alto, con i pesci e i volatili di profilo, e gli alberi ribaltati tutti intorno, come se fossero stesi per terra. La visione, in realtà, non è propriamente dall’alto, perché in questo caso degli alberi si sarebbero viste solo le fronde e non i tronchi. E, come appare del tutto evidente, non è prospettica, giacché se si fosse adottato questo sistema di rappresentazione (ricordiamo che gli artisti del Paleolitico già utilizzavano correttamente lo scorcio), le proporzioni fra le diverse parti sarebbero risultate alterate, le forme sarebbero apparse deformate e ciò che sta davanti avrebbe coperto, parzialmente o totalmente, ciò che si trova dietro. In questo modo, tutto appare chiaro e riconoscibile. Noi non vediamo così ma questo all’artista non importava minimamente.
Troviamo una soluzione analoga in un altro affresco, proveniente da una ricca tomba della Necropoli tebana, in cui si vedono degli operai trasportare una statua lungo una vasca. Anche in questo caso, tutti gli alberi sono ribaltati intorno al perimetro della vasca medesima.
Un altro celebre dipinto mostra Il grande giardino di Sennefer con piscine piene di piante e uccelli acquatici, circondate da alberi. Anche in questo caso, il disegno risulta, a un primo sguardo, particolarmente ingenuo, come se fosse stato realizzato un bambino: le piscine sono disegnate dall’alto ma gli animali sono di profilo e anche gli alberi sono ribaltati sul piano. Si tratta, oramai è chiaro, di una ingenuità solo apparente: gli artisti egizi non avevano il compito di “fotografare” la realtà ma di descriverla nel modo più preciso possibile, per conservarla in eterno.
Alcune decorazioni tombali incompiute ci hanno permesso di apprendere il metodo in uso per la realizzazione dei dipinti murari. I pittori egizi preparavano le pareti da dipingere con uno strato di intonaco poi ricoperto con una malta di carbonato di calcio, gesso e paglia tritata, che veniva lasciato asciugare e in seguito lisciato. Quindi tracciavano un reticolato di linee perpendicolari, formando una griglia di caselle quadrate tutte uguali. Tale schema serviva poi da tracciato regolatore, per disegnare le figure umane.
Il reticolo presentava, secondo le epoche, 18 o 23 quadrati di altezza e conteneva il soggetto da riprodurre dalla pianta dei piedi all’attaccatura dei capelli. Il copricapo non veniva preso in considerazione e poteva presentare varie dimensioni. Due quadrati servivano per la faccia e il collo; il punto vita era segnato dalla linea del sesto quadrato; fianchi e bacino occupavano tre quadrati e nove erano riservati alle gambe (comprendenti coscia e polpaccio). Il braccio occupava cinque quadrati verticali, le spalle sei orizzontali e tre la pianta del piede.
Ovviamente, erano regolate da convenzioni analoghe tutte le altre misure, come la lunghezza di un passo, misurata dalla punta di un piede al tallone dell’altro. Ultimato il disegno, si procedeva con la pittura, eseguita con la tempera a secco, una tecnica che prevede la pittura su pareti asciutte, con colori fissati per mezzo di sostanze agglutinanti, come colla, uovo, grassi animali o cera.
Gli antichi Egizi riconobbero all’arte una funzione importantissima. Ma di tale importanza non usufruirono gli artefici materiali delle opere d’arte. Pittori e scultori egizi erano infatti destinati a lavorare per i sovrani, i sacerdoti e i funzionari dello Stato; e i loro manufatti artistici, di altissima qualità, dovevano rispondere perfettamente alle richieste di una rigida etichetta di corte e di pratiche pertinenti al culto oramai consolidate da secoli. Avevano, quindi, pochissimi margini di libertà.
Essi studiavano e imparavano il mestiere, così come gli scribi, nelle cosiddette “case della vita”, annesse ai templi egizi: istituzioni scolastiche, normalmente dirette da sacerdoti, presso le quali si tramandavano le esperienze conoscitive tradizionali, si svolgevano gli studi specialistici di aritmetica, geometria, astronomia e medicina. In Egitto, l’arte non era solo guidata da finalità estetiche, non era una forma espressiva o, come diremmo oggi, il frutto del talento naturale di pochi privilegiati. Essa, al contrario, aveva il compito di rendere visibile un potere stabile che si considerava perpetuo; per questo motivo doveva configurarsi come immutabile ed eterna, e seguire delle regole che per quasi tre millenni si mantennero sempre rigidissime.
Straordinario!
Bravissimo !!!
molto interessante
grazie
Grazie, molto interessante!
Patrizia