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Nel 1505, a Roma, papa Giulio II incaricò il grande scultore Michelangelo Buonarroti (1475-1564) di progettare il suo monumento funebre, da collocare al centro della nuova Basilica di San Pietro. L’artista concepì un grandioso mausoleo architettonico di ascendenza classica, decorato da molte sculture. Secondo la ricostruzione degli storici dell’arte, all’esterno, nell’ordine inferiore, il mausoleo avrebbe presentato le quattro facciate divise da pilastri, con figure di Schiavi (o Prigioni) addossate e nicchie con immagini di Vittorie. Più in alto, Mosè e San Paolo avrebbero simboleggiato, rispettivamente, il Vecchio e il Nuovo Testamento. Michelangelo considerava questo Sepolcro come la sua opera ideale, poiché rendendo omaggio alla figura di un singolo pontefice egli avrebbe potuto celebrare il trionfo della Chiesa stessa. Attraverso la complessa ed elaborata iconografia, inoltre, egli avrebbe sintetizzato la storia spirituale di tutta l’umanità, che interpretava come la lotta dell’anima contro il “carcere terreno” e la liberazione di questa dal peccato. Prigioni di Michelangelo
Il monumento venne realizzato solo molti anni più tardi, nel 1545, dopo una lunga e tormentata gestazione, non più a San Pietro ma nella Chiesa di San Pietro in Vincoli e con l’intervento di alcuni collaboratori. Nel corso di quei quarant’anni, Michelangelo aveva tuttavia scolpito i due Prigioni oggi al Louvre, una Vittoria, il Mosè e altri quattro Prigioni lasciati non finiti, oggi alla Galleria dell’Accademia di Firenze. Di tutti questi capolavori, solamente il Mosè venne utilizzato per la tomba del papa.
I Prigioni del Louvre
I Prigioni oggi conservati al Louvre, scolpiti a partire dal 1510, sono stati chiamati Prigione ribelle e Prigione morente. È Vasari a spiegare, nelle sue Vite, perché queste due statue si trovano oggi in Francia. Michelangelo stesso le donò a Roberto Strozzi, per ricambiarlo dell’assistenza ricevuta durante due periodi di malattia, nel 1544 e nel 1546. Lo Strozzi fu poi esiliato a Lione da Cosimo I de’ Medici; lì si fece inviare le due sculture e le donò, a sua volta, al Re di Francia.
Il Prigione ribelle, dal volto non finito, evoca la scultura ellenistica del Laocoonte; ne ripropone infatti la disperata torsione e il sovrumano sforzo fisico impiegato nel vano tentativo di liberarsi dalla stretta dei legami. Questo nudo robusto è un’esplicita personificazione del pàthos: i suoi muscoli sono contratti allo spasimo, il corpo si torce, l’espressione denuncia uno stato di tensione insopportabile. Non è solo da catene materiali che il giovane cerca di liberarsi, ma da costrizioni spirituali, poiché la bellezza delle sue membra è considerata prigione per la sua anima.
Il Prigione morente, la cui languida posizione richiama l’iconografia tradizionale del San Sebastiano, è invece uno degli omaggi più alti dell’artista alla bellezza del nudo maschile. Se il Prigione ribelle rappresenta uno stato d’animo attivo, il Prigione morente ha invece un atteggiamento passivo: il giovane, cinto al petto da una semplice fascia, si sorregge la testa leggermente ruotata e piegata all’indietro; questo gesto non è indicativo di un dolore fisico ma di un tormento interiore, dal quale un sonno profondo, forse la morte stessa, sembra giungere a liberarlo.
La felicità, che secondo la filosofia antica è solo cessazione del dolore, si raggiunge conquistando la perfetta armonia con il creato e quindi una perfetta quiete. Ma la quiete perfetta coincide solo con la morte, che anche Michelangelo considerava come liberatoria.
I Prigioni dell’Accademia
Gli altri quattro Prigioni, detti dell’Accademia e databili in un periodo compreso fra il 1519 ed il 1534 circa, furono lasciati dal maestro allo stato di abbozzo. I singoli nomi, con cui oggi sono conosciuti, vennero assegnati solo nel XIX secolo. Queste figure sembrano emergere dolorosamente dalla materia; esse, infatti, hanno la testa o le mani o i piedi immersi nel marmo che sembra fagocitarli. Pochi particolari anatomici, i muscoli della schiena, le cosce, il torace e l’addome, sono sufficienti a comunicare e suscitare un’ampia e contraddittoria gamma di emozioni.
Il Prigione che si ridesta emerge dal marmo contorcendosi. Il ventre è la parte più finita. Il volto, invece, è appena sbozzato, sia nei lineamenti sia nella barba, e così le braccia e le gambe, ancora immerse nella pietra. È audacissima la posizione della gamba destra, piegata ad angolo come il braccio destro, in una sorta di parallelismo che crea un energico effetto di dinamismo.
Il Prigione giovane è un po’ più finito del Prigione che si ridesta. Ha la gamba sinistra piegata e con il braccio sinistro alzato si nasconde il volto. Il braccio destro, tenuto dietro, sembra legato a un’invisibile catena. La parte posteriore è completamente grezza.
Il Prigione barbuto è il più completo dei quattro. La sua figura possente presenta una dolente torsione, che esalta la magnifica muscolatura e riesce a comunicare magistralmente la sofferenza provata. Le gambe, leggermente piegate e divaricate, sono ancora trattenute da una fascia, da cui l’uomo sembra volersi liberare. Con il braccio destro, sollevato, il Prigione si regge la testa reclinata; con la mano sinistra, ancora immersa nella materia viva del marmo, sembra stringere con forza il legaccio che lo vincola.
Il Prigione Atlante deve il suo nome al blocco non scolpito in cui la testa è immersa e che sembra gravargli sulle spalle, ricordando il titano Atlante che sorreggeva la sfera celeste. Il braccio sinistro, piegato, preme contro quella massa soffocante come a volerla respingere. Di tutte le sei figure di Prigioni, questa è certamente quella che esprime con maggiore violenza il senso della lotta.
Un modernissimo linguaggio
I Prigioni sono la più efficace testimonianza che Michelangelo concepì la scultura solo come arte che si ottiene a forza di togliere; la forma, egli scrisse, «là più cresce u’ più la pietra scema», che in altre parole vuol dire: “al ridursi della materia, cresce la forma”. Nella concezione di Buonarroti, quindi, scalpellare il marmo per eliminarne l’eccedenza non era una semplice attività manuale, ma prima di tutto un’operazione di natura intellettuale. Lo scrisse, in uno dei suoi più celebri sonetti: «Non ha l’ottimo artista alcun concetto / c’un marmo solo in sé non circoscriva / col suo soverchio, e solo a quello arriva / la mano ch’obbedisce all’intelletto». Secondo l’artista, non era necessario terminare l’opera, se questa già riusciva ad esprimere ciò che aveva da esprimere. Michelangelo sfatò quindi il pregiudizio che il finito artistico fosse una condizione necessaria perché l’opera acquistasse valore, segnando così una svolta radicale nella storia della scultura occidentale e anticipando di secoli il gusto del Novecento. Rispondendo a una profonda esigenza della sua poetica, egli tradusse il non-finito in un nuovo linguaggio dell’arte. Attraverso il non-finito, Michelangelo trovò un modo, coraggiosissimo, per esprimere l’inesprimibile, per arrivare all’essenza dell’idea artistica. Nessuno, per secoli, avrebbe avuto il coraggio di imitarlo.