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Nel settembre del 2018 si è tenuta a Firenze, dentro Palazzo Strozzi, una grande mostra retrospettiva dedicata a Marina Abramović (1946), certamente una delle personalità più celebri, ammirate, contestate e controverse dell’arte contemporanea. Esponente di spicco della Body Art, Abramović ha davvero rivoluzionato, in 50 anni di carriera, l’idea stessa di performance, con esperienze talvolta estreme, talvolta scandalose, sempre provocatorie, mai banali. Il titolo della retrospettiva fiorentina, The Cleaner, sottendeva una riflessione dell’artista sulla propria vita: «Come in una casa: tieni solo quello che ti serve e fai pulizia del passato, della memoria, del destino». La re-performance: copia, falso o nuovo originale?
La mostra ha riunito oltre 100 opere ricordando i momenti salienti di una carriera sempre fulgida, che si è snodata a partire dagli anni Settanta per arrivare a questo esordio di XXI secolo. Non è stata la prima retrospettiva della Abramović: l’altra, celeberrima, è stata organizzata dal MOMA di New York nel 2010. In quel contesto, l’artista si era impegnata in una delle più intense e toccanti performance della sua carriera, The Artist is present, rimanendo seduta per tutta la durata della mostra a guardare fisso negli occhi chi voleva, a sua volta, sedersi di fronte a lei.
La retrospettiva fiorentina ha visto, nei primi tre giorni, l’artista presente e dialogante con il pubblico ma non impegnata in nuove performances. Sono stati affidati a video, fotografie, dipinti, oggetti e installazioni il ricordo e il bilancio di un lavoro oramai cinquantennale, condotto in solitudine o in coppia con il suo compagno Ulay, l’uomo che ha condiviso alcuni suoi progetti rimasti capitali.
Già in occasione della retrospettiva newyorkese, giovani performers avevano riproposto alcune delle celebri performances dell’artista e della coppia di artisti. Anche a Firenze, nel contesto di The Cleaner, si sono avvicendati capaci performer che hanno presentato alcune delle performances più celebri, tra cui Imponderabilia. Durante la performance del 1974, interrotta dalla polizia, il pubblico fu costretto a passare nel ristrettissimo spazio dei corpi nudi della Abramović e di Ulay.
Anche in questo caso, il pubblico ha potuto fare altrettanto, relazionandosi con i giovani artisti coinvolti. È, questo, il sistema della re-performance, ideato dalla stessa Abramović per mantenere vive le sue opere, che altrimenti esisterebbero solo come documentazione d’archivio. Pur coinvolgendo spettatori e performers diversi, la performance rimane la stessa di alcuni anni fa e nel contempo cambia continuamente, rinnovandosi nei diversi contesti in cui viene replicata. «Il mio lavoro esiste anche fuori di me», ammette la Abramović.
Il metodo della re-performance impone una riflessione. Come considerarla? Copia? Falso? Nuovo originale? È evidente che con la Body Art non si possono utilizzare le tradizionali categorie adottate dalla letteratura artistica e dalla critica d’arte. Un quadro, una scultura, sono oggetti, che in quanto tali si possono copiare, replicare, falsificare.
La performance è una esperienza, effimera se considerata nell’ambito del ristretto contesto spazio-temporale in cui si è svolta. Ma l’esperienza, per definizione, ha un vissuto personale anche quando è collettiva. Dunque, è sempre unica. Nulla vieta però di riviverla o di proporla a qualcun altro. E un’esperienza come la mia, quando vissuta da un altro, diventa forse una copia o addirittura un falso della mia? Evidentemente no.
Consideriamo il caso specifico di Imponderabilia. In quel lontano 1974, l’intento degli artisti fu quello di provocare una reazione, una emozione in quelle persone, che si trovarono a dover affrontare e vincere il proprio imbarazzo, decidere da che parte voltarsi, se fronteggiare un uomo nudo o una donna nuda, laddove nessuna delle due scelte è scontata.
Marina e Ulay non erano all’epoca famosi, non erano star, i loro corpi erano semplicemente quelli di due estranei con i quali si doveva avere un approccio comunque intimo, per quanto fugace. L’esperienza fu sicuramente diversa per ognuna di quelle persone che all’epoca passarono fra di loro.
I performers che ancora oggi rimangono nudi e impavidi fra gli stipiti di quella porta, durante le re-performances, non sono Marina e Ulay, evidentemente; passare fra di loro toglie qualcosa all’esperienza? No, perché l’esperienza ha sempre valore in sé, legata al vissuto di ognuno, e non dipende solo da chi la propone. E d’altro canto se uno passasse due volte fra gli stessi performers non riproverebbe le stesse, identiche sensazioni.
Io, per esempio, sono passato tra quei due ragazzi, ho fatto i conti con le mie emozioni, e anche se loro non erano la Abramović e Ulay non ha fatto differenza. Il senso e il significato dell’esperienza, infatti, prescindeva da chi per la prima volta aveva avuto quell’idea.
Consideriamo un altro caso, quello dell’ormai celeberrima performance The Artist is present: quella in cui, al MOMA di New York, ci si poteva sedere davanti alla Abramović e guardarla, e farsi guardare. Anche quella fu una esperienza di relazione. Marina e il suo pubblico si guardavano negli occhi, in silenzio, per incontrarsi, per dedicarsi una all’altro nel breve intervallo di tempo che il contesto consentiva.
Ricorda Marina: «ciò di cui mi accorsi subito fu che le persone sedute davanti a me provavano emozioni molto forti. Fin dall’inizio, la gente piangeva – e piangevo anch’io. Ero un loro specchio? […] Ti sedevi davanti a me. Venivi ripreso e fotografato. Venivi osservato da me. Non potevi andare da nessuna parte se non dentro di te. E il punto era questo. La gente trabocca di dolore e tutti cerchiamo di ricacciarlo giù».
Nel contesto della retrospettiva fiorentina, è stato allestito in una sala lo stesso set di The Artist is present: medesimo tavolo, medesime sedie. Sullo sfondo, le immagini della performance newyorkese. Una testimonianza, un ricordo di quel celebre evento.
Mi sono avvicinato a una delle sue sedie e mi sono seduto. Subito dopo si è seduta davanti a me una ragazza. Ci siamo guardati a lungo. Non c’era la Abramović, non c’era un performer incaricato di sostituirla. Eravamo io e quella ragazza, con la gente intorno che ci guardava e ci fotografava. Per certi versi, io e lei ci siamo appropriati della performance, o la performance, attraverso di noi e degli altri prima e dopo di noi, ha preso vita autonoma proseguendo oltre la Abramović.
Cosa abbiamo fatto, noi del pubblico? Una re-performance? Una re-re-performance? Siamo rimasti nella sfera dell’arte o ne siamo usciti? Stavamo a nostra volta facendo arte o scimmiottando una celebre performance? Ancora una volta, non si possono usare le consuete categorie di giudizio.
Con The Artist is present, la Abramović ha voluto esortarci a guardarci l’un l’altro, non a guardare lei. Ha voluto prima di tutto evidenziare che oggi più che mai è necessario creare o ricreare una catena di conoscenza, che è la premessa della solidarietà. L’altro non è il nemico da evitare ma una persona da incontrare. Seduti su quelle sedie io e la sconosciuta ragazza non ci siamo relazionati ma ci siamo comunque incontrati e, assicuro, non in modo superficiale.
Senza dubbio, il contesto museale ha dato valore simbolico a quell’incontro, lo ha trasfigurato, per certi versi. Come è accaduto alla stessa Abramović, che di solito non si mette ad osservare immobile le persone, seduta al tavolino di un bar.
L’artista non “era presente”, fisicamente, nella sala fiorentina, ma il valore del gesto si era mantenuto, come al Moma di New York nel 2010. Il gesto dell’artista che ricerca la relazione “con” il pubblico può infatti rivivere nella relazione “del” pubblico. Non è il gesto di Fontana che taglia la tela o di Pollock che versa il colore.
Quelli sono unici e irripetibili e come tali non riproducibili o riproponibili da alcuno. Si identificano totalmente ed esclusivamente con gli artisti che li hanno compiuti. L’arte della relazione è invece vita ed esperienza e passa dall’artista al pubblico. Quindi, sì: l’arte di Abramović può vivere oltre l’Abramović.
pittoresco!
Grazie mille!