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Il Realismo ottocentesco: l’arte del vero e dal vero
Raccontare la verità, denunciare le ingiustizie.
Autore: Giuseppe Nifosì Pubblicato in Realismo ed Impressionismo – Data: Aprile 25, 2021 2 commenti 10 minuti
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Nel corso dell’Ottocento, l’insoddisfazione per l’autoritarismo delle classi dirigenti, unita alla crescente consapevolezza dei problemi che affliggevano la società contemporanea, favorì la formazione di ampie sacche di dissenso. L’idealismo umanitario settecentesco cedette il passo a pressanti richieste di riforme politiche e sociali, che si scontrarono con l’intransigente opposizione delle élites dominanti. Realismo ottocentesco.

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Attraverso accesi e appassionati dibattiti si analizzarono le conseguenze positive e negative dell’industrializzazione, si criticarono il benessere dell’alta borghesia e l’eleganza dei nuovi quartieri residenziali, si denunciarono la miseria delle classi lavoratrici e la degradazione dei bassifondi. Il Realismo ottocentesco.

Arte e socialismo

Nel 1848 fu pubblicato il Manifesto del Partito Comunista dei filosofi ed economisti tedeschi Karl Marx (1818-1883) e Friedrich Engels (1820-1895). Tutti questi temi ispirarono le opere letterarie del Naturalismo in Francia e del Verismo in Italia e, nel campo delle arti figurative, sollecitarono lo sviluppo della cosiddetta “pittura del vero”.

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Il proletariato, in lotta per eliminare ogni disuguaglianza tra le classi sociali, divenne fra i soggetti preferiti di scrittori e artisti e ispirò opere capaci di stigmatizzare l’ingiustizia sociale dello sfruttamento e affermare il significato etico del lavoro. Pescatori, contadini, prostitute, lavandaie, straccivendoli, mendicanti, ubriaconi, ferrovieri e minatori divennero, così, i protagonisti di racconti, romanzi, stampe e dipinti.

Gustave Courbet, Gli spaccapietre, 1849. Olio su tela, 1,59 x 2,59 m. Già a Dresda, Gemäldegalerie. Distrutto durante la Seconda guerra mondiale.

Arte e Positivismo

Intorno alla metà dell’Ottocento, l’arte europea venne fortemente influenzata anche dal pensiero positivista, che contestò con forza l’estetica romantica. A differenza del Romanticismo, che aveva considerato l’opera d’arte come il prodotto della capacità creativa del singolo artista, il Positivismo elaborò l’idea di un’arte frutto di un determinato ambiente geografico e sociale e che solo all’interno di tale contesto poteva essere compresa.

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Accantonando l’immagine del genio creatore, il Positivismo spinse l’artista ad assumere un atteggiamento oggettivo, neutrale nei confronti del soggetto da rappresentare, analogo a quello dello scienziato impegnato a studiare i “fatti”. Col Positivismo, quindi, l’estetica si aprì al realismo. Vero scopo dell’artista, scrisse il filosofo, storico e critico letterario francese Hippolyte Taine (1828-1893), «è quello di imitare, con la massima fedeltà possibile, la natura e la realtà umana nei suoi minimi particolari».

Jean-François Millet, Le spigolatrici, 1857. Olio su tela, 83,5 x 110 cm. Parigi, Musée d’Orsay.

L’arte secondo Marx

Anche secondo Karl Marx (che non si occupò quasi mai esplicitamente di temi estetici, in senso strettamente disciplinare), la cultura, inclusa l’arte, costituisce un riflesso della struttura economico-sociale di un’organizzazione umana storicamente determinata. Ne consegue che una determinata società, attraverso l’arte, esprime le proprie aspirazioni, le idee, le forme di coscienza. Non necessariamente l’arte riflette le idee delle classi dominanti: vi possono essere artisti e scrittori, perfino di orientamento politico conservatore, capaci di cogliere le tendenze più profonde che operano nella realtà del proprio tempo.

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Talvolta, essi sanno individuare orientamenti ancora in fase germinale, destinati ad affermarsi compiutamente solo dopo un certo tempo. Marx stigmatizzò l’«immediato unilaterale godimento», il mero «avere» inteso quale «possesso» astratto che gli uomini hanno con l’«oggetto» dell’arte. L’opera d’arte, secondo Marx, non può essere consumata per sé stessa ma solo in quanto oggetto di «utilità», necessario a soddisfare i bisogni primari e secondari (i bisogni naturali e sociali) dell’uomo.

Telemaco Signorini, L’alzaia, 1864. Olio su tela, 58,4 x 173,2 cm. Collezione privata.

L’arte come documento di cronaca sociale

Un’opera d’arte, così intesa, si poteva presentare come documento visivo, poteva trasmettere il senso di una data epoca storica. Un esempio emblematico è costituito da una pubblicazione, del 1872, del giornalista William Blanchard Jerrold (1826-1884) e del pittore-incisore Gustave Doré (1832-1883), intitolata London, A Pilgrimage (Londra, un pellegrinaggio). I due autori si erano proposti di mostrare come «milioni di esseri agglomerati agiscono e reagiscono gli uni agli altri».

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Con le sue straordinarie illustrazioni, Doré riportò con lo spirito di un moderno fotoreporter ‘luci e ombre’ dalla popolosa Londra, lasciando ampio spazio allo spettacolo squallido e carico di miseria e sofferenze offerto dalla città. L’incisore descrisse i quartieri popolari e sovrappopolati, raccontò il dramma del lavoro minorile. Celebri le sue fedeli riproduzioni dei cosiddetti slums della capitale britannica, i bassifondi costipati di edifici fatiscenti costruiti in assenza di qualsiasi norma di igiene e sicurezza.

Gustave Doré, Wentworth Street a Londra, 1872. Incisione. Da W. Blanchard Jerrold, G. Doré, London, A Pilgrimage. Londra, British Library.
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Gustave Doré, I quartieri poveri sotto i viadotti ferroviari a Londra, 1872. Incisione. Da W. Blanchard Jerrold, G. Doré, London, A Pilgrimage. Londra, British Library.

La pittura del vero in Francia

Nel corso del secondo Ottocento, si svilupparono in tutta l’Europa diversi movimenti di stampo realista, i più importanti dei quali furono il Realismo francese e il Verismo italiano. In Francia, il Realismo, corrispettivo artistico del Naturalismo letterario, si sviluppò a partire dalla metà degli anni Quaranta e per più di un ventennio. I suoi principali rappresentanti furono Gustave Courbet e Jean-François Millet.

Jean-François Millet, L’uomo con la zappa, 1860-62. Olio su tela, 80 x 99,1 cm. Los Angeles, Getty Center.

Si può inquadrare storicamente il Realismo francese identificandolo con la carriera del suo principale protagonista, Courbet, che, attivo dal 1842, definì la poetica di questo movimento solo nel 1855, in un opuscolo scritto in occasione dell’Esposizione Universale di Parigi. Fu sempre a margine di quella manifestazione che Courbet aprì il suo provocatorio Pavillon du Réalisme, un padiglione nel quale espose le sue tele rifiutate all’esposizione ufficiale. Courbet dipinse ancora durante gli anni Sessanta ed è quindi possibile scegliere le date 1842 e 1866 come inizio e fine del Realismo. In questi anni, iniziò la sua carriera anche un altro grande artista francese, Édouard Manet, considerato il padre dell’Impressionismo ma riconducibile, nel complesso, all’esperienza realista.

Édouard Manet, Il balcone, 1868-69. Olio su tela, 1,7 x 1,25 m. Parigi, Musée d’Orsay.

La pittura del vero in Italia

In Italia, il fenomeno artistico equivalente al Realismo, noto come Verismo, fu in buona parte influenzato dalla pittura di Millet. I pittori veristi furono attivi negli anni Sessanta, Settanta e Ottanta del XIX secolo, dunque con un certo ritardo rispetto alla Francia.

Teofilo Patini, Bestie da soma, 1886. Olio su tela, 2,44 x 4,16 m. L’Aquila, Palazzo del Governo.

In Toscana, anche i macchiaioli, artisti così chiamati perché, volendo rimanere fedeli all’impressione visiva, dipingevano “a macchie”, ricercarono un contatto diretto con la natura e la realtà sociale, privilegiando paesaggi, momenti di vita quotidiana borghese, rappresentazioni del mondo contadino, episodi delle campagne militari del Risorgimento italiano.

Giovanni Fattori, La rotonda di Palmieri, 1866. Olio su tavola, 12 x 35 cm. Firenze, Palazzo Pitti, Galleria d’Arte Moderna.

L’arte incontra la politica

Le analogie tra Realismo e Verismo furono molto marcate. Realisti e veristi si concentrarono sullo studio della realtà e sull’osservazione analitica del vero, scelsero colori strettamente conformi alla natura e rappresentarono soggetti facilmente riconoscibili e tratti dalla vita di tutti i giorni.

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Attentissimi alle mutate condizioni sociali, economiche e politiche, legate alla crescita del proletariato urbano e alla nascita della lotta di classe, tanto i francesi quanto gli italiani rifiutarono ogni forma di idealizzazione e amarono trattare temi e soggetti ispirati dal mondo contemporaneo, che non di rado ebbero caratteri di denuncia marcati e provocatori. Essi rappresentarono soldati, contadini, operai, lavandaie, prostitute; in generale, i ceti più poveri, spesso mostrandone, nello scandalo generale, le tristissime condizioni di vita.

Filippo Palizzi, Gruppo di garibaldini, 1860. Olio su tela, 42 x 65 cm. Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna.

La pittura del vero, però, non ebbe, sempre e comunque, una coloritura esplicitamente socialista, soprattutto in Italia: in molte opere, infatti, le motivazioni politiche risultano sfumate o del tutto assenti. A differenza del Realismo, inoltre, il Verismo non fu mai un movimento omogeneo e mantenne forti caratterizzazioni regionali. Anche la pittura di paesaggio fu coinvolta da questa spinta di cambiamento. Realisti e veristi amarono dipingere il mare, la campagna, i boschi, le montagne esattamente come li vedevano, senza aggiungere o togliere nulla.

Henri Fantin-Latour, L’atelier delle Batignolles, 1870. Olio su tela, 2,04 x 2,73 m. Parigi, Musée d’Orsay. Nel dipinto sono raffigurati Manet (con il pennello in mano), Renoir (il secondo in piedi da sinistra) e Monet (l’ultimo, seminascosto in fondo a destra).

Il gruppo impressionista

Nella seconda metà degli anni Sessanta, in Francia, l’arte di Édouard Manet iniziò a costituire un punto di riferimento indiscutibile per un gruppo di giovani pittori che decisero di svilupparne lo stile scatenando una vera e propria rivoluzione tecnico-figurativa. Nacque così l’Impressionismo, uno straordinario movimento artistico che poi si sviluppò fino al tardo Ottocento.

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Anche lo stile di Courbet, soprattutto quello degli anni in cui il pittore si dedicò alla pittura di paesaggio, ebbe un’influenza determinante su tali giovani artisti, che ne adottarono la stessa densità di colore, la medesima alternanza di tocchi regolari e discontinui, la stessa tendenza a rendere l’erba e le foglie con pennellate decise e colpi di spatola.

Claude Monet, La Grenouillère, 1869. Olio su tela, 74,6 x 99,7 cm. New York, Metropolitan Museum of Art.

Gli impressionisti furono meno polemici e politicamente impegnati dei realisti. Essi vollero soprattutto “aggiornare” il riferimento alla realtà contemporanea, rappresentando la vita quotidiana della città moderna e, in particolare, della borghesia, i cui usi e costumi mai, prima di allora, erano stati così attentamente e appassionatamente documentati. Soprattutto, compirono una vera e propria rivoluzione in ambito stilistico, inventando una tecnica del tutto innovativa.

Edgar Degas, La lezione di danza, 1874. Olio su tela, 85,5 x 75 cm. Parigi, Musée d’Orsay.

La loro arte venne quasi sempre aspramente osteggiata. In occasione di una loro esposizione parigina, un importante critico del tempo, Albert Wolff (1835-1891), strenuo oppositore dell’Impressionismo, scrisse su «Le Figaro»: «Si è aperta da Durand-Ruel un’esposizione che si dice di pittura.

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Il passante ignaro entra e ai suoi occhi sgomenti si offre uno spettacolo crudele: si sono dati convegno cinque o sei alienati, fra i quali una donna. Gli espositori si dicono impressionisti: prendono delle tele, dei pennelli, dei colori, gettano a caso sulle tele qualche macchia e firmano».

Pierre-Auguste Renoir, Ballo in città, 1882-83. Olio su tela, 180 x 90 cm. Parigi, Musée d’Orsay.


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