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Rhythm 0 (ossia Ritmo 0), del 1974, è una delle performances più scioccanti ed estreme di Marina Abramović (1946) tra le più importanti e conosciute esponenti internazionali della Body Art. Quell’anno, a Napoli, presso la Galleria Morra, l’artista si offrì al pubblico per sei ore di fila, immobile, con lo sguardo fisso e impassibile.
Accanto a lei, su un tavolo, erano distribuiti 72 oggetti, alcuni innocui, altri pericolosi (coltelli, lamette, una pistola con un proiettile). Un cartello riportava la seguente scritta: «Ci sono 72 elementi sul tavolo e si possono usare liberamente su di me. Premessa: io sono un oggetto. Durante questo periodo, mi prendo la piena responsabilità di ciò che accade».
Inizialmente non successe nulla; poi, quando il pubblico si rese conto che la donna non avrebbe fatto niente per proteggersi, il sadismo prese il sopravvento. La spogliarono, la tagliarono, la toccarono viscidamente, le puntarono la pistola carica. Alla fine della performance, ricorda l’artista, i presenti rimasti uscirono di corsa dalla galleria. Marina tornò in albergo con un profondo senso di solitudine. Le ferite pulsavano di dolore e non riusciva a liberarsi dalla paura.
Era convinta che, se non ci fossero state delle donne presenti nella stanza, sarebbe stata anche violentata. Guardandosi allo specchio, scoprì che una ciocca di capelli le era diventata grigia. Il giorno dopo, decine di persone telefonarono alla Galleria per scusarsi, affermando che non sapevano spiegarsi cosa fosse loro successo.
In questa totale identificazione di arte e vita, la Abramović aveva quindi raggiunto il suo scopo: dimostrare che esiste un lato oscuro nell’umanità, per cui si è spinti ad accanirsi contro chi non può o non vuole difendersi. I presenti, in fondo, non erano criminali ma persone qualunque, che in società si presentavano come “perbene”, “buoni padri di famiglia”. Abramović avrebbe potuto affrontare questo tema attraverso una scena, in un quadro o in una scultura, o per mezzo di un racconto: con la performance lo rese reale, tangibile, inequivocabile, agli occhi di tutti, anche dei protagonisti. Certo, l’artista ha rischiato, ma l’arte, secondo lei, è mettersi totalmente in gioco.
Questo lavoro dell’Abramović è l’ennesima, tragica presa d’atto di quello che Hannah Arendt (1906-1975), filosofa e politologa tedesca del Novecento, ha definito, nella sua opera più importante, La banalità del male (1963). Il saggio nacque come diario del processo ad Adolf Eichmann, un nazista responsabile operativo dello sterminio degli ebrei: un uomo mediocre, di bassa cultura, desideroso di compiacere i propri comandanti, che aveva vissuto di idee altrui e parlava per frasi fatte. Non un mostro, dunque, ma un uomo-tipo, con cui si possono identificare tantissimi singoli individui.
La Arendt giunse quindi alla conclusione che l’Olocausto era stato più il frutto dell’ignavia che della cattiveria dell’umanità. Non sempre chi commette il male desidera commetterlo. È piuttosto la mancanza di riflessione che rende l’uomo, ogni uomo, pericoloso. «La mia opinione – scrive la Arendt – è che il male non è mai “radicale”, ma soltanto estremo, e che non possegga né la profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare tutto il mondo perché cresce in superficie come un fungo.
Esso sfida, come ho detto, il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità». In questo è l’infondatezza del male. Il male non è assoluto: sebbene si manifesti, sebbene lo sperimentiamo, esso non ha radici. L’uso del pensiero può dunque prevenirlo: e questo costituisce, di per sé, una possibilità di riscatto per l’umanità intera.
Sono profondamente colpita da questa storia. Penso al senso di solitudine è il dolore provato dall’artista (ciocca grigia). Mi spaventa l’idea che l’uomo possa non pensare. È pericoloso e dannoso oltre che non umano. Le autorevoli riflessioni della Arendt mi accompagnano nella vita.