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«Rovine. Fanno sognare e donano poesia a un paesaggio». Così scriveva, nel 1850, lo scrittore francese Gustave Flaubert. È vero. Gli edifici in rovina – siano essi antichi monumenti diroccati ma anche, più semplicemente, palazzi o case in abbandono, dagli intonaci sbiaditi e dagli stipiti spezzati, coperti di polvere e ragnatele, invasi da una vegetazione selvaggia e parassita che penetra tra le spaccature delle pietre, dalla muffa che ne ricopre macabra le pareti e i soffitti, squarciati sul cielo o sul paesaggio circostante – esercitano su tutti un fascino ambiguo e dolente, comunicano un senso di precarietà ineluttabile, si rendono testimoni del tempo che passa e che tutto corrode.
Angosciano, senza dubbio, eppure attraggono, stimolano un sentimento che i romantici avrebbero definito sublime. «La vita possiede un’inestimabile pulizia morale: tutto finisce. Talvolta ha la generosità di concedere ancora qualcosa prima che tutto venga spazzato via: le rovine. Resti del passato che testimoniano il cammino della storia» (S. Zecchi).
Le rovine hanno esercitato, nel tempo, un fascino irresistibile che si è fatto stimolo culturale. Per tutto il Settecento, invasero opere di pittori e incisori, alimentarono le ricerche archeologiche, stimolarono i viaggi di ricchi rampolli dell’aristocrazia europea, che cedettero alla moda del Grand Tour. Tra le mete privilegiate erano Paestum, Selinunte, Segesta (Ercolano e Pompei non erano ancora accessibili), i cui templi, in gran parte crollati, trasmettevano un senso di silenziosa malinconia. Dai poderosi resti di ciò che un tempo fu grandioso, l’uomo si sente come sovrastato e si percepisce insignificante.
Il pittore romantico Johann Heinrich Füssli (1741-1825) esprime bene questo stato d’animo in un suo celebre disegno, in cui un uomo si commuove di fronte ai ruderi grandiosi di Roma. Tali rovine lo inducevano a meditare sulla fragilità delle sorti umane e gli evocavano un destino ineluttabile di morte. Quella stessa antichità che alimentava il sogno neoclassico poteva ispirare, infatti, anche le fantasie più tenebrose; quel passato che i classicisti eleggevano a mito rassicurante e positivo, a modello ancora valido per il presente, poteva apparire come un mondo grandioso ma irrimediabilmente perduto, che lasciava all’artista moderno solo spazi minimi, condizionanti, e gli suscitava un senso di impotenza, di frustrazione e di angoscia.
«Le idee che le rovine suscitano in me sono grandiose», scrisse il filosofo e critico d’arte francese Denis Diderot nel 1767. «Tutto passa, tutto perisce. Soltanto il mondo resiste. Soltanto il tempo continua a durare. Io cammino tra due eternità. Ovunque io guardi, gli oggetti che mi circondano, mi annunciano la fine, e mi mettono in guardia rispetto a ciò che mi attende. Cos’è la mia esistenza effimera in comparazione a quella di una roccia che sprofonda nella terra o a quella di una valle che si frantuma o ancora a quella di questa foresta che cambia come queste masse che, sospese sopra la mia testa, si muovono?». L’estetica della rovina, insomma, è da sempre associata all’idea di decadimento fisico e alla meditazione sul destino fatale del genere umano.
L’Abbazia nel querceto, dipinta nel 1809-10 dal grande pittore romantico tedesco Caspar David Friedrich (1774-1840), è, non a caso, una struggente allegoria della vita e della morte.
Un’abbazia gotica in rovina, di cui resta solo la facciata, è circondata da scuri tronchi di querce, i cui rami spogli s’innalzano dolenti verso un cielo luminoso ma plumbeo. Questa luce, che certo non può essere generata dalla sola luna, ha qualcosa di innaturale, anzi di sovrannaturale. Le sagome contorte degli alberi conferiscono al quadro una nota di lamento straziante, che accompagna una processione funebre di monaci nel cimitero adiacente.
In questo paesaggio di morte, immerso in una nebbia densa, coperto dalla neve gelata, le sagome dei frati quasi si confondono con quelle delle croci. Nella facciata in rovina dell’abbazia, vero e proprio memento mori, i tre vetri circolari della vetrata in alto potrebbero alludere alla Trinità. Di fronte a un’opera del genere, così carica di significati mistici e trascendenti, anche lo spettatore ha quasi la sensazione di attraversare la soglia che separa la vita dalla morte, il mondo dall’aldilà, e percepisce in prima persona la dolorosa malinconia di quel rigidissimo, silenzioso inverno che poi è anche l’inverno della vita.
Esiste in Italia, a una trentina di chilometri da Siena, una rovina che incarna in modo emblematico questo dolente sentimento romantico del tempo che scorre, quasi fosse uno sviluppo tridimensionale del dipinto di Friedrich: è l’Abbazia di San Galgano, o meglio ciò che resta dell’antica abbazia cistercense qui costruita a partire dal 1218, completata nel 1262 e consacrata nel 1288. Sin dalla metà del XIII secolo, l’abbazia di San Galgano fu la più potente fondazione cistercense in Toscana, protetta dagli imperatori Enrico VI, Ottone IV e Federico II che le garantirono sovvenzioni e privilegi. Una gloria che durò poco: gli eventi naturali e le vicende umane fiaccarono subito il suo prestigio e la sua ricchezza: prima la carestia del 1328, poi la peste del 1348, che uccise quasi tutti i monaci, poi ancora i tanti saccheggi delle compagnie di ventura. Nel 1474 il monastero fu abbandonato.
A metà del XVI secolo, la copertura in piombo del tetto della chiesa venne venduta e questo accelerò il deperimento della struttura. Risulta da una relazione del 1576 che nel monastero abitava un solo monaco, che le vetriate erano tutte distrutte, le volte delle navate crollate. Alla fine del Settecento crollarono sia quanto rimaneva delle volte sia il campanile, sicché l’abbazia venne sconsacrata. Oggi l’interno della chiesa si presenta a cielo aperto, d’inverno il pavimento è bagnato dalla pioggia, d’estate viene ricoperto da un manto erboso. Il turista si aggira timoroso e quasi incredulo fra quelle imponenti pareti diroccate, fra i possenti pilastri che nulla più reggono, fra le finestre vuote come orbite di morto. Vi si percepisce, soprattutto nelle grigie e nebbiose giornate d’inverno, un senso di incontrollabile fatalità.
Anche le arti visive contemporanee, come già quelle romantiche, mostrano un’acuta sensibilità nei confronti dell’estetica delle rovine. Il fotografo inglese James Kerwin, un urban explorer, come egli stesso si definisce, sin dal 2013 ha dedicato la sua arte alla riproduzione di interni ed esterni di palazzi decadenti, in Europa (Francia, Belgio, Italia, Polonia, Ucraina, Bulgaria e altri paesi dell’est) e nel mondo. Edifici poco accessibili e dimenticati, distrutti da bombardamenti oppure semplicemente disabitati, lascianti in uno stato di abbandono e crollati, invasi da una natura aggressiva che lentamente si riappropria dei suoi spazi.
«Adoro andare in cerca di spot con questa estetica» ha detto Kerwin. «Credo che diano un valore aggiunto alla fotografia. I muri scrostati o le piastrelle rotte possono diventare una chiave di lettura di grande interesse. Certo, senza dubbio la luce e la composizione rimangono i veri “re” dello scatto perfetto, ma questi ingredienti sono un plus». Chiese, monasteri, ville, palazzi che un tempo furono festosi e fastosi oggi si mostrano in tutta la loro miseria, diroccati e inutili. Qui, dove pulsava la vita, ora regnano polvere di intonaci, calcinacci e silenzio, forse interrotto dallo stormire delle fronde o dal cinguettio degli uccelli. A volte, un pianoforte scassato, un divano sfondato, un motociclo arrugginito, un lampadario che ha ben poco da illuminare restano inutili e dimenticati testimoni di preghiere, passi, corse, risate e pianti che lì, un tempo, abitarono.
Un percorso analogo è quello proposto dal pittore padovano Matteo Massagrande (1959), interessante esponente dell’Iperrealismo contemporaneo. Massagrande ha trovato la sua più fertile cifra stilistica nella creazione di immagini d’interni abbandonati, privi di mobili, coperti di polvere, dai muri scrostati. Sono scorci di stanze, per lo più, che spesso si aprono su altre stanze, in un gioco di porte e di rimandi dal vago sapore surrealista, con finestre e vetrate che aprono varchi sul paesaggio circostante e alimentano un senso di profonda tristezza. Nonostante l’applicazione di una prospettiva geometrica a prima vista impeccabile, tutto nelle sue opere appare instabile, inafferrabile e destabilizzante, complice il ricorso a un gioco costante di punti di vista che sembra voler sfidare la nostra percezione.
Gli interni disabitati di Massagrande sono stati giustamente definiti “stanze della memoria”, “scatole dei ricordi”, sono soprattutto luoghi onirici che si prestano ad essere abitati dalle libere associazioni della nostra mente, della nostra fantasia. Ha detto l’artista: «Io non mi limito quasi mai a dipingere ciò che vedo così com’è, ma ho bisogno di sommare, mettere insieme e quindi inventare ulteriori spazi, per sottolineare questa visione. Le presenze umane non le sento indispensabili negli interni, poiché gli interni stessi sono ritratti veri a tutti gli effetti. Come i ritratti veri (quelli veramente veri), non sono solo pelle, occhi e bocca etc, ma emanano l’essenza stessa della vita, non solo quella passata».
La pittura di Massagrande richiama, a tratti, le seducenti e solitarie atmosfere di Hammershøi. I preziosi dettagli dei suoi pavimenti piastrellati, in particolare, mostrano gli echi dei capolavori rinascimentali di Piero della Francesca o di Antonello da Messina, delle stanze dei fiamminghi, delle camere silenziose di Vermeer e degli olandesi. Essi, con le loro forme geometriche eleganti e le claustrofobiche fughe prospettiche, conferiscono ai vani diroccati una dignità e un fascino che il tempo distruttore sembra non poter, o non voler, corrompere. Giacché è vero che il tempo consuma la bellezza, ma è altrettanto vero che non sa del tutto cancellarne la memoria.
Lo stesso dolente senso di perdita si ritrova nelle opere di un’interessante artista concettuale contemporanea: Chiharu Shiota (1972), allieva di Marina Abramovic, che oggi vive e lavora a Berlino, ma realizza le sue opere nei musei e nelle gallerie di tutto il mondo. Shiota è infatti diventata famosa per le sue installazioni site specific, nelle quali avvolge oggetti di uso comune in un fitto e intricato ordito di fili di lana. In queste vere e proprie scenografie, dal significato altamente simbolico, ottenute con un lavoro lungo e paziente, si coglie un senso di abbandono e di conseguente smarrimento: contesti a noi familiari, espressione della vita quotidiana, oppure legati alla dimensione dell’incontro, dello spettacolo, e dunque espressivi di bellezza, appaiono come ricoperti da una fitta ragnatela che li rende drammaticamente inutili e inaccessibili.
Consideriamo In silence, una suggestiva installazione del 2008. Un pianoforte e le sedie intorno sono stati bruciati e fagocitati da una massa lanuginosa. Laddove prima c’era la musica, fonte sublime di armonia, adesso c’è il silenzio, come recita il titolo. È una calma forzata, luttuosa: non la quiete della meditazione, che dà pace, ma l’assenza di suoni, tipica della cessazione della vita. È importante, e nel contempo inquietante, la domanda che l’artista si pone, e ci pone, attraverso opere del genere: l’uomo, che nei millenni della sua civiltà ha saputo (anche) creare così tanta bellezza, è oggi incapace di rinnovarla, tutelarla? Sta davvero abbandonando tutto, rinunciando alla sua identità? È questo il destino dell’umanità? L’artista sembra esserne convinta. Noi invece crediamo che la bellezza, come l’Araba Fenice, sappia sempre rinascere dalle sue ceneri.
Complimenti! Percorsi e approfondimenti sempre di spessore e molto interessanti.
Grazie
Grazie mille per l’apprezzamento!
Tutto molto interessante e bello come sempre!
Mi fa molto piacere. Grazie a lei per l’apprezzamento
Una scheda con tanti spunti interessanti. Mi hanno colpito le “stanze” di Massagrande: gli interni (forse per i colori caldi? Le porte semiaperte?) non mi fanno pensare alla solitudine ma alla vita, come se le persone ne siano appena uscite. Sbaglio?
Io credo che le stanze di Massagrande siano come luoghi dell’anima: vuoti all’apparenza e da riempire con ciò che abbiamo dentro. Penso che provochino in ognuno una sensazione differente
eccellente la rete di collegamenti di varia origine