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L’architettura monumentale si sviluppò nell’antica Grecia dopo il VII secolo a.C., durante l’età arcaica. Il tempio, edificio di culto e dimora degli dèi, venne ovviamente considerato come il monumento più importante e autorevole della città greca, la pòlis. I principali templi cittadini sorgevano nella parte più alta dei centri urbani, definita acropoli.
Conoscere le parti del tempio greco è importante perché tutti i principali elementi costitutivi di questo edificio vennero ereditati dai Romani e (tranne che durante il Medioevo) dal 1400 ai nostri giorni furono regolarmente utilizzati per costruire gli edifici pubblici e privati, praticamente fino al XX secolo. Non c’è città europea e americana in cui, passeggiando, non si riconosceranno nei palazzi, nei teatri, nei comuni, nelle chiese, elementi architettonici del tutto identici a quelli adoperati nell’antica Grecia.
La storia del tempio greco racconta dell’impegno incessante e progressivo con cui questa civiltà migliorò e perfezionò una delle più antiche tipologie architettonche, inseguendo costantemente l’ideale supremo della perfezione e dell’armonia. In età prearcaica, i riti religiosi si celebravano con ogni probabilità all’aperto, all’interno di recinti che delimitavano un’area sacra dedicata alla divinità. Successivamente, intorno al VII secolo a.C., si stabilì di collocare la statua sacra all’interno di un ambiente chiuso, chiamato nàos (o cella, alla latina), mentre l’altare fu lasciato di fronte all’entrata. Siccome il naos era un ambiente sacro, in quanto casa del dio, non vi si svolgevano i riti collettivi, praticati invece all’aperto.
Di questi primi templi, costruiti in legno e mattoni crudi (dunque con materiali facilmente deperibili), non ci è rimasta alcuna testimonianza diretta. Certi modellini votivi di terracotta ci hanno comunque permesso di ricostruirne la forma. Tali edifici templari, che apparivano piuttosto simili al mègaron miceneo, ossia alla tipica sala del trono del palazzo acheo, erano semplici sale rettangolari precedute da un portico, chiamato prònaos (o prònao), e coperte da un tetto a due spioventi; presentavano una sola porta di accesso ed erano illuminate da una finestra posta in alto.
Il pronaos, ossia il portico d’ingresso, era coperto. La copertura poteva essere sostenuta o dal prolungamento dei muri laterali del naos, detti ante, con due colonne in mezzo, oppure da quattro o più colonne. Nel primo caso, il tempio è detto “in antis”, nel secondo caso è detto “prostilo”. Questo tempietto venne poi munito anche di un secondo portico posteriore, chiamato opistòdomos (o opistòdomo), che non dava accesso al naos e aveva solo una funzione estetica. Un tempietto in antis con anche l’opistodomos era detto “doppiamente in antis”, uno prostilo era chiamato “anfiprostilo”.
In una fase successiva, il tempio (composto da naos, pronaos e opistodomos) fu interamente circondato da un colonnato, detto perìstasi, formato da una successione di colonne poste a intervalli regolari, che giravano tutto intorno alla struttura. Un tempio dotato di peristasi è detto periptero. Eccezionalmente, le peristasi potevano essere due: in questo caso, il tempio era chiamato diptero. Il tempio è classificabile in base al numero di colonne che presenta sulla facciata: è detto tetrastilo con quattro colonne, esastilo con sei, octastilo con otto e decastilo con dieci. I più comuni erano quelli esastili.
La peristasi era presente anche in particolari tempietti dal naos circolare, detti “a tholos”, i quali costituirono una eccezione nell’architettura greca, che mai amò le forme curve in architettura. I tempietti a tholos si trovavano soprattutto nei luoghi di culto più importanti, come i grandi santuari.
Sui motivi che spinsero all’introduzione del colonnato (o peristasi) si è molto dibattuto, senza giungere a spiegazioni definitive. Alcuni storici dell’architettura ipotizzano siano state determinanti necessità di tipo funzionale: difendere dalla pioggia i muri di mattoni crudi, oppure offrire ai fedeli, esclusi dalla cella sacra durante le celebrazioni, un riparo dalle intemperie.
Forse i corridoi della peristasi segnavano anche il percorso di alcune processioni rituali. Altri studiosi, seguendo le osservazioni dell’antico architetto romano Vitruvio, considerano la peristasi come un arricchimento formale del tempio, capace di rendere la dimora terrena del dio ancora più prestigiosa e degna della sua funzione. D’altro canto, l’intero edificio sorgeva sopra un alto basamento di pietra, normalmente a tre livelli, detto crepidoma, che lo rendeva ancora più maestoso. In generale, non abbiamo motivo per escludere a priori alcuna delle ipotesi formulate: l’architettura, infatti, ha sempre e comunque il compito di mediare tra esigenze funzionali ed esigenze rappresentative.
La colonna greca era composta da tre parti: una piccola base in basso, poi il fusto, che aveva una forma tendenzialmente cilindrica (perché in realtà si restringe verso l’alto e per questo è detto rastremato) e, sopra il fusto, il capitello. A un terzo della sua altezza, il fusto presenta anche un leggerissimo rigonfiamento, detto èntasi (dal greco, ‘gonfiore’), adottato per eliminare l’illusione ottica che, a distanza, fa apparire più stretta la parte centrale della colonna. Il fusto non era liscio ma decorato con delle profonde incisioni verticali, dette scanalature.
Le colonne della peristasi sostenevano una struttura orizzontale detta trabeazione. Anche la trabeazione era divisa in tre parti: dal basso, architrave (che si appoggiava direttamente sul capitello della colonna), fregio e cornice. La trabeazione sosteneva il tetto, che dunque copriva tutto: naos, pronaos, opistodomos e il corridoio che le colonne creavano con le pareti del naos. Il tetto era formato da una serie strutture triangolari in legno, dette capriate, poste parallelamente fra di loro, su cui si appoggiavano i tavolati della copertura (le cosiddette falde inclinate) e il manto in terracotta costituito dalle tegole (embrici e coppi).
Le falde del tetto formavano con la trabeazione, davanti e dietro, uno spazio triangolare, chiamato frontone, che veniva chiuso da un muro detto timpano e decorato con bassorilievi o statue. Ai tre vertici del frontone erano collocati gli acrotèri (dal greco akrotèrion, ‘sommità’), elementi piatti in terracotta dipinta (dischi, palmette) oppure statue, dette acroteriali, sempre in terracotta o in marmo, alle quali era attribuita la funzione simbolica di allontanare il male dall’edificio. Altri acroteri potevano essere disposti lungo il vertice del tetto (detto linea di colmo).
Sulle testate delle travi del tetto o sui canali terminali dei coppi si trovavano le antefisse, in legno o terracotta, che avevano forma di palmetta o di testa umana o di mostro, in particolare di Gorgone.
Dei pochi templi greci sopravvissuti a terremoti, guerre e distruzioni si conservano, in genere, solo parti della peristasi e frammenti di trabeazione. Talvolta sono rimasti in piedi anche i frontoni e i timpani, raramente le pareti della cella, mai il tetto. Le decorazioni scultoree hanno perso la loro collocazione originaria e sono conservate (nel migliore dei casi) nei musei di tutto il mondo. I secoli hanno cancellato anche i colori (rosso, giallo, blu) con i quali questi edifici erano vivacemente dipinti, con l’intento di evidenziare profili architettonici e modanature: una tradizione piuttosto antica risalente alla civiltà minoica.
Preciso, chiaro, esatto.