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Nel 1968 fu scoperta, a meno di 2 chilometri a sud di Paestum (l’antica città greca di Poseidonia, in Campania), una tomba a cassa, costituita da cinque lastre calcaree che, al momento del ritrovamento, si presentavano accuratamente connesse fra loro e stuccate all’esterno, come per impedire infiltrazioni d’acqua. La cassa era priva di fondo e poggiava direttamente su un basamento roccioso. La Tomba del tuffatore a Paestum.
Aperto il manufatto, si verificò che era tutto dipinto ad affresco, copertura inclusa. E proprio la lastra di copertura che raffigura un giovane tuffatore, finì per dare il nome all’intera sepoltura: Tomba del tuffatore. La notizia della scoperta fece immediatamente il giro del mondo. Per la prima volta, infatti, si poteva ammirare un esempio concreto di pittura greca. Il sepolcro conteneva pochi resti dello scheletro, attribuiti a un giovane, e un elegante corredo funerario, costituito da tre vasi (un vaso a figure nere e due piccoli vasi per unguenti in alabastro) e uno strumento musicale, per l’esattezza una lyra.
In particolare, i vasi hanno permesso di datare con certezza la tomba al decennio compreso tra il 480 e il 470 a.C., quindi a quella fase dell’età classica nota come età severa. La cassa, smontata, è oggi conservata presso il Museo Archeologico Nazionale di Paestum.
Le lastre che costituivano le pareti della cassa presentano vivaci scene conviviali, mentre sul coperchio è raffigurata l’immagine di un giovane colto nell’atto del tuffarsi. Le quattro scene conviviali, nel loro insieme, ricostruiscono il contesto di un “simposio”, cioè la fase del banchetto greco destinata alla degustazione dei vini, all’ascolto di musiche e canti e alla recitazione di versi. Non è un caso, quindi, che nel corredo funerario della tomba sia stata ritrovata anche una lyra.
Un lato corto della cassa, quello a est, mostra un efebo nudo che attinge il vino da un grande vaso, posto sopra un tavolo adorno di festoni. Sopra il secondo lato corto, una giovane suonatrice di aulos (un tipico strumento a fiato) scandisce la danza di un ballerino dal corpo atletico. Alle loro spalle, un uomo maturo con la barba potrebbe identificarsi con un paidagogos, cioè con un saggio, un maestro.
Sui due lati lunghi sono invece dipinti dieci simposiasti (partecipanti al simposio): sono tutti uomini, singoli o a coppie, sdraiati sui klìnai (lettini); alcuni bevono, altri suonano, altri ancora discorrono. Un convitato canta reclinando il capo e toccandosi la fronte con una mano, accompagnato dal flauto del suo vicino. L’arredo della scena è completato da tavoli bassi sui quali sono poggiate le kylikes, le larghe coppe da portata.
Sulla lastra lunga del lato nord, notiamo un giovane impegnato nel kòttabos, un gioco che consisteva nel tentativo di centrare il kottabèion, un recipiente di bronzo posto al centro della stanza, con le ultime gocce di vino della propria coppa. Nel lettino accanto, due amanti stanno per abbracciarsi guardandosi negli occhi, sotto lo sguardo incuriosito di un vicino; uno dei due è molto giovane, come dimostra il suo volto glabro.
Il tema del simposio non è soltanto legato all’educazione che il defunto ricevette in vita; le scene simposiache, infatti, possono alludere a un convivio funebre così come fa, d’altro canto, anche la scena del piccolo corteo preceduto dal ballerino. Analogo significato può presentare l’immagine del tuffo, da intendersi come la figurazione del passaggio fra la vita e la morte.
I blocchi da cui si lancia il giovane tuffatore (l’uomo deposto nella cassa) potrebbero alludere alle mitiche colonne d’Ercole, poste a segnare il confine del mondo, e dunque simboleggiare il limite della conoscenza terrena. Lo specchio d’acqua sarebbe allora un’efficace metafora dell’aldilà, ignoto e misterioso traguardo della nostra esistenza.
Dal momento della scoperta del monumento, la critica si è divisa in due correnti contrapposte. La prima ha esaltato il suo straordinario valore di testimonianza documentaria, in quanto rarissimo esempio di originale ellenico; la seconda ha cercato di ridimensionare la portata del ritrovamento, osservando che si tratta pur sempre di un esempio di pittura provinciale di media qualità artistica, che non può essere scelto a paradigma dell’intera pittura greca classica.
L’opera, infatti, testimonia che, nonostante la rappresentazione piuttosto naturalistica, a questa data la pittura prodotta nei centri di provincia si risolveva ancora in un disegno colorato, senza ombre né chiaroscuri, senza sfondo né resa spaziale. In effetti, la Tomba del tuffatore fu dipinta da due artisti, rimasti purtroppo anonimi, dotati di un mediocre talento, i quali non si dedicarono all’opera con particolare perizia, come testimoniano alcune tracce di colatura del colore. La freschezza e la spontaneità delle sue raffigurazioni la rendono in ogni caso una testimonianza affascinante.
Interessante.
Grazie per le informazioni, complimenti per il suo lavoro
Grazie di cuore!