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Nella storia dell’arte sono spesso esistite epoche in cui le diverse tecniche artistiche hanno riportato, nei rispettivi campi, una certa uniformità di linguaggio, giungendo a esiti analoghi. Nel caso dell’epoca gotica questa omogeneità non si verificò: la pittura subì infatti uno scarto temporale notevole rispetto all’architettura e alla scultura e si rinnovò con un ritardo di tre o quattro decenni.
Se da un lato la scultura, trainata dalle importanti innovazioni tecniche dell’architettura, aveva raggiunto un po’ ovunque in Europa livelli di espressività e compiutezza plastica piuttosto apprezzabili, la pittura restò lungamente legata alla tradizione bizantina delle icone e, almeno in Italia, il mosaico (anch’esso di stampo bizantino) rimase la forma d’arte figurativa più apprezzata.
L’arte di Costantinopoli, legittimata da una lunga e gloriosa tradizione e considerata come un’espressione di perfezione formale, aveva mantenuto in Italia un prestigio incontestato; ancora nel XIII secolo, dopo che tantissime icone erano giunte dalla capitale dell’Impero d’Oriente (a seguito del saccheggio di Costantinopoli del 1204 a opera dei Crociati), le opere bizantine continuavano ad essere imitate con diligenza. Entro la prima metà del Duecento, questo divario toccò il culmine; se pensiamo alla capacità narrativa di Nicola e Giovanni Pisano, ci accorgiamo che nessun pittore dell’epoca fu capace di altrettanta espressività e vivacità.
Nella seconda metà del Duecento, invece, si affermarono in Italia importanti scuole artistiche, come quella fiorentina, quella romana e quella senese, che in maniera autonoma e adottando soluzioni diverse superarono il vecchio stile: infatti, i loro straordinari protagonisti portarono avanti nel giro di un cinquantennio una ricerca artistica che alimentò una rapida fase di trasformazione.
Sia pure cresciuti nell’ambito della cultura bizantina, pittori pieni di intuito e creatività, come il fiorentino Cimabue, il romano Cavallini e il senese Duccio di Buoninsegna, elaborarono alla fine del secolo innovazioni formali e narrative di grande rilievo; la consapevole adesione alla cosiddetta “maniera greca” non impedì loro di elaborare un linguaggio davvero personale, vigoroso e di grande intensità espressiva, che servì da trampolino per i successivi traguardi di Giotto, che a loro volta portarono nel volgere di un secolo alla grande rivoluzione del Rinascimento.
Nei primi decenni del Trecento si verificò quindi un vero e proprio ribaltamento del rapporto tra le due tecniche: la scultura abbandonò il suo primato, a favore di una pittura sempre più innovativa e capace di nuove sperimentazioni formali e iconografiche. Accanto a Firenze, Roma e Siena, divenuti poli culturali attivi e trainanti dell’epoca, si distinse anche la città di Assisi; il cantiere della Basilica di San Francesco, nei cui ponteggi lavorarono uno accanto all’altro Cimabue, Cavallini, Giotto e a distanza di pochi anni i più importanti allievi di Duccio, Simone Martini e Pietro Lorenzetti, divenne il più importante laboratorio artistico del Trecento e certamente uno dei più famosi di tutti i tempi.
Il rinnovamento del linguaggio pittorico italiano si articolò, sul finire del XIII secolo, tra Firenze, Assisi e Roma: anche a Roma, infatti, artisti di altissimo livello elaborarono un interessante linguaggio figurativo che si propose come alternativo a quello toscano. Come già quella fiorentina, anche la pittura sviluppatasi a Roma nel Duecento presenta caratteristiche peculiari, tanto da spingere la critica a classificarla come frutto di una definita “scuola” artistica. Con questo termine si usano indicare gli allievi di un grande maestro o quei gruppi di artisti che aderiscono a un comune indirizzo.
Nella scuola romana del XIII secolo, spiccano soprattutto tre pittori mosaicisti: Pietro Cavallini, Jacopo Torriti e Filippo Rusuti. Tali artisti di grandissima levatura lavorarono probabilmente anche ad Assisi, a fianco di Cimabue e dei suoi allievi, fornendo un importante contributo al rinnovamento della pittura italiana e alla maturazione del linguaggio artistico trecentesco. La scuola romana del XIII secolo, guidata da Cavallini, fu dunque una delle più importanti in Italia, forse la più importante. Purtroppo, per una serie di circostanze, della sua straordinaria produzione si è persa quasi ogni traccia e memoria.
Jacopo Torriti, artista favorito di papa Niccolò IV, fu pittore e mosaicista. Di lui si conosce ben poco, se non che fu attivo soprattutto a Roma nella seconda metà del Duecento e che forse lavorò ad Assisi, nella Basilica superiore, dove gli sono stati attribuiti gli affreschi di entrambi i lati della prima campata (quella più vicina all’altare), con la Creazione del mondo, la Creazione di Adamo da un lato, Annunciazione e Visitazione dall’altro, e parte di quelli della seconda (Abramo e gli angeli, Sacrificio di Isacco), tutti molto sciupati o ridotti a frammenti. Nella Basilica, Torriti dette prova di una grande maturità artistica, con le sue figure solenni ma eleganti, fortemente debitrici dei modelli classici e paleocristiani.
È certamente di sua mano il mosaico del catino absidale della Chiesa di San Giovanni in Laterano, a Roma, firmato e datato 1291 (IACOBUS TORRITI PICT(OR) H(OC) OP(US) FEC(IT) / ANNO D(OMI)NI M CC NONAGES(IMO) II). Sulla scorta di un ipotetico autoritratto dell’artista, presente in questo mosaico lateranense, è stato proposto che Torriti sia stato un frate francescano.
L’opera venne commissionata da papa Niccolò IV e raffigura la Croce mistica tra la Vergine, il Battista e santi, una iconografia fortemente influenzata dalla tradizione paleocristiana.
La croce di Cristo, dorata e gemmata, bagnata dalla Grazia in forma d’acqua che scaturisce dallo Spirito Santo in forma di colomba, è piantata sul colle del Paradiso e genera i quattro fiumi cui vanno ad abbeverarsi cervi e agnelli.
Purtroppo, questo mosaico risulta gravemente snaturato, giacché, nel 1878, è stato scomposto e ricomposto nel nuovo catino absidale, dopo che tutta la zona presbiteriale della chiesa venne arretrata e ricostruita rispetto all’antica struttura.
La critica attribuisce al Torriti anche il mosaico absidale della Basilica di Santa Maria Maggiore a Roma, con l’Incoronazione della Vergine, la Morte della Vergine (Dormitio Virginis) e le Storie di Maria, del 1295. Questo mosaico sostituiva quello paleocristiano distrutto nel 1290, a seguito dell’arretramento dell’abside. Nel rispetto della continuità, il disegno e la simbologia dell’opera torritiana richiamano la migliore tradizione paleocristiana, mentre la gerarchia proporzionale delle figure, il fondo oro, le lumeggiature delle vesti rimandano alla tradizione bizantina. L’impostazione delle forme, la convincente volumetria delle figure e soprattutto l’uso di certi motivi ornamentali mostrano, invece, una viva attenzione per i modelli antichi.
Nella scena principale, con l’Incoronazione della Vergine, la Madonna è seduta su un largo trono con il Cristo all’interno di un cerchio che rappresenta il Cosmo, di cui ella diventa sovrana. Il figlio la incorona, alla presenza di angeli, apostoli e santi e del papa committente. Accompagna questa scena quella con la Dormitio Virginis, forse una delle più belle tra quelle realizzate nel XIII secolo.
Anche Filippo Rusuti (1255 ca.-1325 ca.), come il suo maestro Cavallini, fu attivo tra Roma, Assisi e Napoli. Di lui, come dei suoi compagni di bottega, conosciamo molto poco; anche della sua partecipazione alla decorazione della Basilica superiore di Assisi, da tutti gli studiosi considerata probabilissima, non abbiamo certezze. Gli sono state attribuite alcune parti delle Storie dell’antico Testamento, in particolare la Creazione di Adamo ed Eva e la Costruzione dell’arca.
È certamente sua la decorazione a mosaico dell’antica facciata di Santa Maria Maggiore a Roma, databile agli anni 1288-1297, oggi seminascosta alla vista dal nuovo prospetto settecentesco di Ferdinando Fuga. È assai probabile che Rusuti abbia collaborato con Torriti alla decorazione interna della chiesa.
Di recente, gli è stata attribuita anche l’icona della Madonna col Bambino della Basilica di Santa Maria del Popolo a Roma, databile al 1297 circa. Il restauro del 2018 ha infatti portato alla luce un’iscrizione riconosciuta come la firma di Rusuti. Maria, che richiama apertamente gli antichi schemi iconografici bizantini, è una Vergine Odigitria che mostra la via, ossia Cristo; tuttavia, questa figura mariana è dotata di una inedita e moderna espressività, riconoscibile soprattutto nell’affettuosa tenerezza con cui volge il capo verso il figlio.
A Napoli, Rusuti potrebbe aver lavorato con Cavallini alla decorazione di Santa Maria Donnaregina, dove potrebbe aver dipinto i Profeti. Sarebbero sue anche alcune scene della Vita di Cristo nella cappella Brancaccio della Chiesa di San Domenico, sempre a Napoli.