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Il termine Belle Époque (‘l’epoca bella’) definisce il periodo che comprende all’incirca gli ultimi decenni dell’Ottocento e gli anni immediatamente anteriori alla Prima guerra mondiale (1914-18). Centro indiscusso di questa stagione fu la Francia, e soprattutto Parigi, ma le sue atmosfere furono tipiche dei maggiori centri europei. Toulouse-Lautrec.
L’espressione Belle Époque ben evidenzia le caratteristiche di questo particolare momento storico, segnato dallo sviluppo, dalla spensieratezza, dalla fede nel progresso: fu infatti l’epoca dei caffè, dei locali notturni, delle sale da ballo, dei cabaret, del can can, del cinema, delle grandi Esposizioni Universali in cui si esibivano le ultime meraviglie della tecnica, delle conferenze di esploratori che raccontavano grandezze e miserie di mondi lontani. Le nuove invenzioni e i progressi della scienza (citiamo solo l’energia elettrica e gli infiniti vantaggi che questa portò nella vita di tutti) determinarono un profondo ottimismo e una nuova fede nelle possibilità dell’uomo.
Tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento la mortalità infantile fu sensibilmente ridotta e quasi tutte le epidemie furono debellate, la produzione industriale aumentò notevolmente, il commercio mondiale addirittura raddoppiò. Quei beni di consumo che un tempo erano prodotti artigianalmente riempirono i nuovi, grandi magazzini; si diffuse la vendita per corrispondenza. Nel 1913 la rete ferroviaria del globo raggiunse il milione di chilometri; le automobili cominciarono ad affollare le metropoli, gli enormi e sfarzosi transatlantici collegarono l’Europa con l’America.
Anche se le sue aspettative sarebbero state presto vanificate dallo scoppio della Prima guerra mondiale, la società europea guardò con fiducia al futuro, certa che la pace e il benessere appena conquistati sarebbero durati molto a lungo. L’affondamento del Titanic (1912), accreditata come la nave più potente del mondo, fu considerato, non a caso, come il primo segnale traumatico della fine di un’epoca.
Henri de Toulouse-Lautrec (1864-1901) apparteneva a una nobile famiglia di antiche origini. Nacque ad Albi, nel sud della Francia, in un palazzo medievale. Il padre, il conte Alphonse de Toulouse-Lautrec, aveva sposato una propria cugina di primo grado, la contessa Adèle, rispettando la consuetudine dell’aristocrazia francese di celebrare matrimoni tra consanguinei. Per questo motivo, Henri nacque con una grave tara genetica e contrasse una malattia ossea di natura ereditaria. Durante la prima adolescenza, due dolorose cadute gli bloccarono la crescita degli arti inferiori, lasciandolo deforme: egli, infatti, sviluppò un busto normale mantenendo tuttavia le gambe di un bambino e raggiungendo l’altezza complessiva di appena un metro e mezzo.
Un critico dell’epoca ci ha lasciato di lui un ritratto a dir poco impietoso, che vale la pena leggere. «Henri de Toulouse-Lautrec era piccolo piccolo, nero nero. Dava ancor più l’impressione di un nano in quanto il busto, che era quello di un uomo, e la grossa testa sembravano aver schiacciato con il loro peso quel poco di gambe che divergevano al di sotto. […] Le sue dita enormi sapevano maneggiare con delicatezza […] quel pezzetto di legno dall’estremità ricurva che lui chiamava bastone. […] Era sempre in carrozza e spesso tormentava l’uno o l’altro dei suoi compagni perché l’accompagnassero a fare il giro del Salon, con lui seduto in una sedia a rotelle. Strane manovre e battute spiritose cercavano di dissimulare la sua terribile difficoltà a camminare».
Il pittore fu drammaticamente segnato da questa gravissima menomazione fisica, anche se usava parlare del suo aspetto con singolare quanto amarissimo senso dell’umorismo. Sappiamo per esempio che da ragazzo si autoritraeva in grottesche caricature, che anagrammava il suo cognome Lautrec in tre-clau, che in francese vuol dire ‘molto zoppo’, e che parlava di sé in terza persona chiamandosi “il nano”.
Distaccatosi dall’ambiente della nobiltà francese, cominciò ben presto a dedicarsi alla pittura. Nel 1881 si trasferì a Parigi per svolgere il suo tirocinio presso lo studio del pittore provinciale René Princeteau, amico del padre. L’anno successivo, iniziò a frequentare le scuole degli accademici Léon Bonnat e Fernand Cormon, dove divenne amico di due giovani pittori pieni di talento, Émile Bernard e Vincent Van Gogh. A Van Gogh, Lautrec fu legato dal comune interesse per gli aspetti più autentici della vita contemporanea, per i quali ricercò sempre una forma di rappresentazione realistica. E da Van Gogh, egli ereditò l’amore per le stampe giapponesi, che alimentò la sua attività di grafico e gli suggerì quell’essenzialità di segno e di colore che sempre caratterizzò la sua pittura.
Nella capitale francese conobbe anche il vecchio Degas, di cui si considerò l’erede ideale. Con il maestro impressionista, sempre prodigo di consigli, condivise il prevalente interesse per il disegno e per la figura umana. «Nella pittura solo la figura esiste. Il paesaggio non è, non deve essere, che un accessorio»: così Lautrec scriveva alla madre. E la storia della sua pittura ci rivela che per il pittore di Albi “la figura” si identificò quasi totalmente con la donna.
Nel 1884 egli si trasferì nel quartiere di Montmartre, fonte inesauribile di ispirazione, dove la vita stessa era un quotidiano spettacolo e dove nel 1886 aprì un proprio atelier. Toulouse divenne un tipico bohémien, assiduo frequentatore degli ambienti più equivoci della Belle Époque parigina: teatri, circhi, cabaret, caffè-concerto, bordelli, diventando così l’interprete più diretto e fedele della vita mondana del tempo.
Molti dei personaggi dei locali pubblici di Parigi, tra cui le stelle del can can La Goulue e Valentin “le Désossé”, la cantante Yvette Guilbert, la ballerina Jane Avril, il proprietario di cabaret Aristide Bruant, furono resi immortali grazie alle opere di Lautrec.
Al Moulin Rouge raffigura l’interno del celebre locale di Montmartre e ritrae alcuni personaggi che erano soliti frequentarlo. Il Moulin Rouge era considerato il tempio della Belle Époque: cabaret, sala da ballo, luogo di incontro dove si scambiavano promesse di appuntamento e dove la maggiore attrazione era il famosissimo corpo da ballo che ogni sera si cimentava in sfrenati can can.
Nel quadro di Lautrec, in primo piano, al tavolo che li copre parzialmente, sono seduti il critico d’arte Édouard Dujardin, la ballerina spagnola detta “La Macarona”, la ballerina Jane Avril dai capelli rossi e Guilbert e Paul Sescau, amici del pittore. Al centro della tela, sullo sfondo, lo stesso Lautrec, riconoscibile dalla bassa statura, cammina in compagnia del cugino Gabriel Tapié de Céleyran, mentre la stella del locale, la ballerina alsaziana di can can Louise Weber, nota come La Goulue, ‘La Golosa’, si sistema l’acconciatura conversando con un’altra donna.
La pittura di Lautrec seppe rappresentare senza veli la sottile malattia sociale che consumava la sua epoca, mostrare con assoluta lucidità le contraddizioni di un mondo in cui il progressivo arricchimento della classe borghese sembrava oscurare l’irreversibile precarietà economica di tutti gli altri. I suoi dipinti di ballerine, cantanti, artisti, ubriaconi, prostitute, intellettuali e modelle mostrano una capacità d’indagine psicologica e sociale davvero straordinaria, raccontano della fatica e della noia, di vite difficili e di solitudini disperate, della transitorietà della bellezza e del fatale invecchiamento, delle tante profonde amarezze che le luci della ribalta non sempre riuscivano a nascondere.
Lautrec non era quello che si definirebbe un bell’uomo, almeno non secondo i canoni più condivisi, ma era intelligente, arguto, ironico e indiscutibilmente affascinante. Piaceva molto alle donne e le sue relazioni non furono solo con le prostitute, tutt’altro. Egli ebbe, per esempio, una lunga e appassionata relazione con Suzanne Valadon (1867-1938), bellissima e disinvolta modella degli impressionisti Degas e Renoir e del simbolista Pierre Puvis de Chavannes, ella stessa pittrice, madre del pittore Maurice Utrillo di cui fu la principale maestra.
La relazione fra Lautrec e la Valadon durò anni, terminò burrascosamente e lei tentò perfino il suicidio, nella speranza di farsi sposare dall’artista.
Suzanne fece anche da modella a Lautrec; compare, per esempio, nel dipinto oggi noto come La bevitrice, realizzato nel 1889. Un’opera in cui la donna, mostrata malinconica e assorta, appoggiata al tavolino di un bar con la bottiglia davanti, sembra incarnare tutti i disagi della società moderna.
Se Degas era stato “il pittore delle ballerine”, Lautrec divenne “il pittore delle prostitute”, che difatti dipinse in molte opere, senza falsi moralismi e senza compiacimenti volgari: certamente mai in maniera scabrosa. Lautrec soggiornò per lunghi periodi in un bordello, la Casa di rue des Moulins, partecipando alla vita quotidiana delle ragazze che vi lavoravano. Così, quasi fosse un giornalista o uno scrittore che realizza un reportage fotografico, rappresentò in una lunga serie di quadri le prostitute mentre aspettavano stanche e annoiate che arrivasse un cliente oppure intente alla toeletta quotidiana o ancora addormentarsi stremate assieme in un solo letto.
Al salon di rue des Moulins, del 1894, mostra per esempio un gruppo di prostitute sedute sui divanetti del loro bordello, tutte completamente vestite, che lì aspettano di essere “scelte”; non sono ancora obbligate a recitare la loro parte, non devono ancora mostrare quell’allegria che nella loro vita reale non conoscono. Del valore di queste opere ben si accorse il vecchio maestro impressionista Renoir, che le definì “disperatamente tristi”.
Un tema, a metà degli anni Novanta, accomunò Toulouse-Lautrec a Degas: quello degli interni dove si muovono figure femminili colte nella loro intimità, mentre si lavano o si vestono. Un suo capolavoro, La toilette del 1896, ci mostra per esempio un’esile donna dalle spalle smagrite, quasi certamente una prostituta, seduta seminuda su un tappeto e intenta, con atteggiamento in apparenza stanco e rassegnato, a prepararsi per quello che si suppone essere il suo triste lavoro.
Lautrec era ben lontano dal giudicare moralmente le prostitute che dipingeva, e che d’altro canto frequentava assiduamente. Al contrario, egli tendenzialmente accomunava la propria vita alla loro. Come quelle donne si sentiva ai margini di una società ipocrita e sprezzante, legata a stereotipi, imbrigliata nei pregiudizi, pronta a puntare il dito, incapace di comprendere e di accettare qualunque forma di diversità. Nei suoi dipinti delle prostitute non cogliamo mai uno sguardo voyeuristico o morboso; Lautrec racconta la vita di donne che non imprigiona in categorie ma delle quali indaga la quotidianità, certo triste e difficile, ma non priva di momenti perfino teneri e poetici. Così, ritroviamo due prostitute dai capelli corti che, come due bambine, sfinite, si sono addormentate nello stesso letto.
E Lautrec non fece certo finta di ignorare che in una comunità femminile come quella potessero nascere rapporti più intimi e amori omosessuali, laddove è anche legittimo pensare che quelle donne degli uomini ne avessero abbastanza, tanto da tenerli fuori dalla propria sfera affettiva. Anzi, paradossalmente, il contesto del bordello, in cui le donne erano come segregate, consentiva loro di sentirsi libere di vivere i propri sentimenti più privati. Ecco allora aggiungersi alla serie dei dipinti sul bordello anche quelli con le donne che si baciano, un tema all’epoca scabrosissimo e perfino pornografico. Invece a noi oggi appare evidente che non c’è nulla di pornografico in queste scene, che anzi testimoniano l’apertura mentale e la modernità di questo artista.
Lautrec raggiunse la fama soprattutto come cartellonista per i locali alla moda, assiduamente frequentati da artisti e intellettuali, in cui si esibivano le più grandi soubrette dell’epoca. Nel 1891, infatti, il Moulin Rouge gli propose la realizzazione di un manifesto pubblicitario che venne poi affisso in tutta Parigi, garantendogli nuove commissioni e un lungo periodo di notorietà. L’artista produsse ben 31 manifesti, tra cui sono famosi quelli per Jane Avril, Aristide Bruant, la ballerina May Milton e per i locali Le Divan Japonais e Le Jardin de Paris. Con questi manifesti egli rivoluzionò la tecnica della litografia, elevando il genere dell’affiche, ossia del manifesto pubblicitario, a una vera e propria forma d’arte.
Nel più celebre di tali cartelloni, il Moulin Rouge, La Goulue, sono ritratti in primo piano le due star dello spettacolo: la ballerina di can can La Goulue, che mandava in delirio le folle con la sua sguaiata sensualità (fu lei a inventare un movimento fortemente erotico, detto “la mossa”), e il ballerino contorsionista Valentin “Le Désossé”.
Il linguaggio figurativo di Toulouse-Lautrec non fu meno spregiudicato dei temi scelti. Tutti i suoi quadri, dipinti con pennellate sciatte e affrettate, sembrano incompleti o appena abbozzati, il disegno prevale nettamente sul colore. Ancora una volta si coglie uno stretto legame con la pittura di Degas: le figure sono spesso tagliate ai margini, creando l’effetto di inquadrature fotografiche frettolose o sbagliate. Si tratta, naturalmente, di scelte consapevoli e meditate, che rispondono a un preciso intento espressivo.
Anche per i suoi cartelloni, Toulouse elaborò un linguaggio figurativo essenziale e immediato, finalizzato ad attirare l’attenzione dell’osservatore; nel caso del poster per il Moulin Rouge, per esempio, il nome del locale è ripetuto tre volte e viene evidenziato da una sola grande M; i colori sono piatti e vivaci e il pubblico sullo sfondo è sinteticamente rappresentato con una silhouette nera.
«Toulouse-Lautrec è padrone della linea a un grado supremo, la domina con una sicurezza rara, la piega alla volontà del cervello, la rende spirituale, elegante o triste, sempre decorativa, la sua grande scienza del disegno gli permette di operare con tinte uniformi una sintesi di grandissima originalità», così scrisse nel 1893 il critico Frantz Jourdain, uno dei pochi ad apprezzarlo.
Alcolista per buona parte della sua vita, dipendente dall’assenzio, malato di sifilide, Lautrec soffriva di depressione e mania di persecuzione; all’inizio del 1899, il padre lo ricoverò in una clinica neurologica, nel disperato quanto vano tentativo di disintossicarlo. Come il suo amico Van Gogh, dunque, egli visse l’esperienza del manicomio. La sua opera si concluse bruscamente nell’estate del 1901, quando fu colto da un colpo apoplettico che gli procurò una semiparalisi. Morì pochi mesi dopo, nella sua tenuta familiare nei pressi di Saint-André-du-Bois. Aveva solo 37 anni.
La critica ottocentesca non fu mai benevola con lui, nemmeno in occasione della sua morte. Considerava Lautrec come una sorta di caricaturista e un esecutore di manifesti da cabaret, e interpretava il suo stile schietto e incisivo come il frutto di uno spirito astioso per le sofferenze che la vita gli aveva inflitto. In un giornale parigino venne ricordato come «un disegnatore che vedeva tutti attraverso le sue miserie fisiche. Prendeva i suoi modelli nel fango, nei lupanari, nelle balere, ovunque il vizio deforma le fisionomie». Il pezzo concludeva: «È morto miseramente, rovinato nel corpo e nello spirito. Fine triste di una triste vita». Ma, come spesso capitava nel XIX secolo, la critica si sbagliava. Di lì a pochi anni, Lautrec sarebbe stato celebrato come uno dei più grandi artisti dell’età moderna.
sempre esaustivo, professore! la seguo sempre.. ottimo il connubio video ed audio con il corredo iconografico…
Grazie di cuore
L’artista non ha fatto altro che risaltare la realtà di una borghesia che una volta arrivata all’apice del benessere probabilmente e inconsapevolmente iniziava il suo declino, nel frattempo si stavano creando i presupposti di una apocalisse che salvo pochi illuminati avevano percepito. Presumo che Lautrec intuendo forse inconsapevolmente ha immortalato nei suoi dipinti il principio della fine quindi la decadenza camuffata in un benessere perpetuo.