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Pietro Berrettini (1596-1669), pittore e architetto, nacque a Cortona, in Toscana, e dalla sua città natale prese il nome con cui è ricordato ancora oggi. Ricevette la sua prima educazione artistica in ambito familiare. All’età di tredici anni, nel 1609, divenne allievo di un pittore fiorentino che lo portò con sé a Roma nel 1612. Il giovane Pietro, assetato di nuove esperienze, eseguì molti disegni dall’antico e studiò con attenzione i capolavori di Raffaello e dei grandi contemporanei, mostrando una sconfinata ammirazione per Guercino e Rubens. Nel 1620 entrò al servizio del marchese fiorentino Marcello Sacchetti. Il Trionfo della Divina Provvidenza di Pietro da Cortona.
Quando, nel 1623, Maffeo Barberini fu eletto papa con il nome di Urbano VIII, Cortona divenne un suo protetto, assicurandosi da quel momento successo e fama. Nel 1625, il papa commissionò al Cortona un affresco, poi realizzato fra il 1633 e il 1639 sulla volta del Salone Grande di Palazzo Barberini, dedicato al Trionfo della Divina Provvidenza.
Il Trionfo della Divina Provvidenza è una grandiosa macchina decorativa, estesa per oltre trecento metri quadri. È considerato il capolavoro assoluto dell’artista, oltre che una delle opere pittoriche più rappresentative dell’intero Barocco europeo. Colpisce, di quest’opera, la straordinaria articolazione di temi e sottotemi narrativi, in cui allegorie e simboli sono trattati in modo da non compromettere la percezione unitaria della composizione. Lo spettatore, infatti, tende ad ignorare, a un primo sguardo, il complesso significato delle scene illustrate, giacché si sofferma ad ammirare la vibrante massa di personaggi in movimento e a inseguire, con lo sguardo, le innumerevoli figure che si agitano sopra di lui.
Lo stesso Pietro da Cortona, d’altro canto, nel suo Trattato della pittura e scultura, redatto con la collaborazione del padre gesuita Domenico Ottonelli e pubblicato nel 1652, affermò l’opportunità di animare sempre le scene pittoriche con molti personaggi.
Il soggetto celebra l’apoteosi della Provvidenza divina e, nello stesso tempo, quella del pontefice e della sua famiglia. Il suo complesso programma iconografico fu redatto dall’artista con la collaborazione del poeta Francesco Bracciolini dell’Api (1566-1645), erudito e letterato di origini pistoiesi molto vicino alla cerchia di Urbano VIII. Bracciolini aveva scritto un poema allegorico, L’elettione di Urbano Papa VIII, subito dopo l’elezione del pontefice; l’opera letteraria venne poi edita, con modifiche suggerite dallo stesso papa, nel 1628. Il vero significato del Trionfo della Divina Provvidenza è dunque il seguente: Maffeo Barberini, il papa, noto anche per le sue doti di poeta, era stato scelto dalla Divina Provvidenza per rappresentarla in terra e pertanto era degno dell’immortalità.
L’artista cortonese seppe accordare i nuovi princìpi dell’arte barocca a un programma encomiastico, cioè elogiativo, senza precedenti. Nessun artista aveva mai tentato di celebrare una famiglia mescolando in modo così spregiudicato il sacro con il profano, accostando i simboli della gloria terrena a quelli della religione cattolica.
La composizione dell’affresco è dominata da una finta struttura architettonica dipinta, costituita da quattro piedritti, sostenuti idealmente dal vero cornicione della stanza, i quali reggono a loro volta un architrave modanato. Tale finta architettura, animata da putti, delfini e altre figure mitologiche, è decorata con vasi, festoni, cartigli e corone di rami intrecciati di ulivo, palma, rovere e alloro (piante che alludono alla pace e alla concordia che il pontificato Barberini aveva riportato nella Chiesa).
Al culmine di ogni piedritto, due tritoni affiancano un clipeo ottagonale in finto bronzo dorato. Ogni clipeo illustra un famoso episodio di storia romana, il quale allude alle virtù civiche e morali del mondo antico che rivivono nel casato Barberini. Alla base di ogni piedritto è dipinto un animale che raffigura, allegoricamente, la virtù corrispondente alla storia narrata nello scudo sovrastante.
Sotto il clipeo con La giustizia del Console Manlio troviamo l’ippogrifo, creatura alata originata dall’incrocio tra un cavallo e un grifone (che a sua volta ha corpo di leone e la testa d’aquila), allegoria della saggezza e della perspicacia. Proseguendo in senso orario, due orse, allegorie della prudenza e della sagacia, sono ricollegate allo scudo con La prudenza di Fabio Massimo; abbinato al clipeo con La continenza di Scipione è l’unicorno, allegoria della temperanza; infine, il leone, allegoria della forza, viene associato alla raffigurazione de L’eroismo di Muzio Scevola.
La struttura architettonica illusionistica del Trionfo della Divina Provvidenza divide lo spazio della volta in cinque settori, uno rettangolare al centro e quattro trapezoidali intorno, ognuno dei quali riporta una scena differente. Questa struttura apre idealmente la volta sul cielo, mostrando allo spettatore un gigantesco vortice di figure che volteggiano sopra di lui. Nell’ampio settore centrale, una scena assai ricca di personaggi celebra il governo spirituale del pontefice: vi sono infatti raffigurate la Divina Provvidenza, che dà il titolo all’opera, e le tre virtù teologali (Fede, Speranza e Carità) che sostengono una corona di alloro nella quale volano le api, simbolo araldico della famiglia Barberini.
Nei quattro settori laterali, sono invece raffigurati episodi che celebrano gli esiti felici del governo temporale di Urbano VIII. Sui lati lunghi, troviamo la Dignità in trono e il Furore incatenato con i ciclopi che forgiano le armi e, dalla parte opposta, il trionfo della Scienza affiancata dalla Religione. Sui lati corti, invece, da una parte Ercole allontana le Arpie e, dall’altra, Minerva scaccia i Giganti.
La scena centrale affronta il difficile tema del Trionfo della Divina Provvidenza e il compiersi dei suoi fini sotto il pontificato di Urbano VIII Barberini.
Domina la figura femminile della Divina Provvidenza, avvolta in un manto dorato, circonfusa di luce (per sottolinearne la natura divina) e seduta sulle nuvole. La sua mano destra è alzata, in segno di comando, mentre la sinistra tiene lo scettro. Si stringono attorno a lei alcune figure allegoriche, in genere identificate con la Sapienza, la Giustizia, la Misericordia, la Verità, la Pudicizia e la Bellezza.
Sotto questo gruppo riconosciamo Crono, il Tempo, raffigurato come un vecchio nudo e poderoso, dotato di grandi ali piumate, intento a divorare i suoi figli.
Lo affiancano, a destra, le tre Parche, cioè Cloto, Lachesi e Atropo, che tengono il filo dell’esistenza umana e simboleggiano il destino degli uomini.
Incoraggiata dalla Divina Provvidenza, l’Immortalità, avvolta in morbidi veli, vola da sinistra con una corona di stelle luminose e si indirizza verso il blasone di casa Barberini, tenuto dalle Virtù teologali (Fede, Speranza e Carità), al fine di incoronarlo di gloria eterna. In alto, a conclusione dell’intera scena, giganteggiano le chiavi (una è simbolo dell’autorità divina e l’altra di quella temporale) e la tiara papale, rette rispettivamente dalle personificazioni della Gloria – per alcuni, la Religione – e di Roma.
La composizione dello stemma Barberini è frutto di una brillante invenzione iconografica di Cortona. Tre grosse api, assolutamente fuori scala e dunque monumentali, vengono racchiuse da una corona di alloro, tenuta dalle tre Virtù teologali: la Fede vestita di bianco, la Speranza in verde e la Carità in rosso. Sia le api sia l’alloro sono simboli araldici della famiglia committente. La presenza delle api è finalizzata alla celebrazione del casato familiare (come d’altro canto nel Baldacchino di San Pietro di Bernini). L’alloro dello stemma potrebbe anche celebrare lo status di letterato e poeta riconosciuto a Urbano VIII, allo stesso modo della corona di alloro tenuta da un putto che si affaccia dall’angolo in alto a sinistra del finto cornicione.
Il Trionfo della Divina Provvidenza di Cortona sancì il superamento dell’illusionismo prospettico rinascimentale e affermò una nuova concezione spaziale e decorativa. La scena dello scomparto centrale, in particolare, suggerisce l’illusione di uno spazio aperto, esteso oltre i limiti materiali dell’architettura reale, con un punto di fuga all’infinito. La prospettiva rinascimentale prolungava lo spazio reale nello spazio virtuale del quadro applicando alla visione le leggi della geometria euclidea; la prospettiva barocca, invece, spinge l’osservatore a perdersi nell’infinità dell’universo.
Questa tendenza a moltiplicare gli spazi illusionisticamente, oltre le finte architetture in prospettiva, con statue e decorazioni a stucco a loro volta illusorie, creò un vero e proprio genere pittorico chiamato quadraturismo. Per cogliere al meglio la composizione e gli effetti illusionistici delle figure è ideale guardare l’affresco dalla porta d’ingresso dell’anticamera successiva allo scalone d’onore. In seguito, percorrendo l’intero perimetro del salone, è possibile osservare ogni scena nel dettaglio, apprezzandone il significato allegorico.
Nel primo settore laterale, che si sviluppa su uno dei due lati lunghi della sala, si affronta il tema degli effetti benefici del governo e della politica del pontificato di Urbano VIII, che regna con autorevolezza pacificando i popoli.
Domina, al centro, la personificazione della Dignità, vestita di un abito d’oro e coperta da un manto azzurro, che porta nella mano destra il caduceo (bastone con due serpenti attorcigliati), tipico attributo di Mercurio e simbolo di armonia. Nella mano sinistra, tiene una chiave, simbolo di autorità e di dominio ma anche di rivelazione. Accanto a lei troviamo da un lato la Prudenza, vestita in bianco e rosso, e dall’altro, di spalle e in blu, la Podestà. Notiamo che anche la Podestà tiene in mano una chiave ed è pronta a ricevere gli ordini della Dignità.
A sinistra della scena, Vulcano, nella sua fucina, forgia le armi con l’aiuto dei Ciclopi ma inutilmente. Infatti, a destra sul lato opposto, la Pace, che ha tra le mani un ramoscello di ulivo, corre a chiudere le porte del tempio di Giano; la Fama, alata, si accinge a proclamare con la sua tuba la gloria dei Barberini, mentre la Mansuetudine, vestita di bianco e con il capo coronato di edera, sconfigge il Furore, che giace a terra nudo e legato. Accanto al Furore scorgiamo una Furia, che tenta invano di liberarlo.
Anche il secondo settore lungo, sviluppato sul lato opposto della volta, celebra il buon governo del casato Barberini attraverso Il trionfo della Scienza affiancata dalla Religione.
La Scienza, vestita di rosso e d’oro, è seduta su una nuvola con le braccia aperte. Tiene nella mano sinistra un libro (simbolo di conoscenza) e in quella destra il fuoco ardente (simbolo di illuminazione, purificazione e conferma nella fede). Rivolge lo sguardo verso il cielo, in direzione della Divina Provvidenza, per testimoniare che solo Dio è detentore della Verità. Infatti, non a caso, la Scienza è accompagnata dall’Aiuto Divino (un giovane alato con la testa cinta di alloro) e dalla Purezza (una fanciulla vestita di veli che tiene in mano un giglio) ed è affiancata dalla Religione che porta il tripode, ossia il sostegno a tre piedi che un tempo veniva dato in premio ai guerrieri e agli atleti, sacro ad Apollo e dunque simbolo della profezia e della rivelazione.
A queste due figure principali si contrappone, a sinistra, la Lascivia, presentata come una donna discinta, sdraiata su un drappo rosso e circondata da putti e da coppie di amorini in lotta, che simboleggiano lo scontro tra l’Amor Sacro e l’Amor Profano. Sullo sfondo scorgiamo un giardino con una fontana, dove alcune fanciulle sono intente a specchiarsi e pettinarsi: una scena che rimanda alla vanità delle cose mondane.
Sulla destra della scena notiamo invece Sileno, grasso, calvo e nudo, circondato da satiri, fauni e baccanti, alcune delle quali, vestite con veli bianchi e pelli di leopardo, tengono fra le braccia il piccolo Bacco.
Sui lati corti della volta, troviamo da una parte la Giustizia romana che tiene il littorio (fascio di verghe legate, antico simbolo di potere e di autorità), accompagnata dall’Abbondanza che porta nelle mani i frutti della terra (che crescono rigogliosi grazie alla supervisione della Giustizia stessa).
In basso, nell’angolo destro di questa scena, si scorge una piccola folla, composta di donne, vecchi e fanciulli. La loro presenza indica che l’imparzialità della Giustizia e la prosperità dell’Abbondanza sono rivolte a tutti gli uomini. Sullo sfondo notiamo un edificio classico con colonne corinzie. Sulla sinistra, Ercole sconfigge le Arpie, alludendo alla vittoria della virtù sul vizio.
Dall’altra parte della sala, invece, Minerva, dea della sapienza, armata di lancia e scudo, è intenta a cacciare i Giganti, colpevoli di aver dichiarato guerra agli dèi: è la vittoria dell’intelligenza sulla forza bruta.
I Giganti ostentano corpi poderosamente muscolosi e i loro volti sono deformati da espressioni furiose. La scena è resa con ardito effetto prospettico, grazie al quale l’osservatore ha proprio la sensazione che i mostri gli stiano cadendo addosso.
Grazie per la precisa e puntuale descrizione.
Grazie mille per l’apprezzamento 🙂
Descrizione dettagliata e molto chiara, che si legge con facilità e soddisfazione.
Ho avuto la fortuna di vedere tempo fa questo meraviglioso affresco e sono rimasto tanto tempo con il viso verso l’alto, mai sazio di questa visione incantevole, magnifica nei tanti particolari e nell’insieme.
Grazie di cuore per l’apprezzamento 🙂
Iconologia non facile e senza il vostro aiuto complessa e difficile. P.d.C. grandioso ma la lettura di F. Haskell apre a riflessioni sui limiti dell’adulazione: più principe che papa? Grazie per la vostra bellissima pagina e per la voce che l’accompagna.
Eccelente spiegazione!!! Grazie Mille.
Grazie davvero per questo chiarissimo testo che illustra il significato del capolavoro di Pietro da Cortona.