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Il Trittico del Blu di Miró
Il senso del viaggio artistico di un poeta visivo.
Autore: Giuseppe Nifosì Pubblicato in Il Novecento: gli anni Venti, Trenta e Quaranta – Data: Marzo 30, 2021 0 commenti 4 minuti
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Nel 1961, il pittore surrealista Joan Miró (1893-1983), poeta visivo di rara raffinatezza, oramai quasi settantenne, dipinse tre quadri che costituiscono un trittico e che l’artista chiamò semplicemente Blu, e più precisamente Blu I, Blu II e Blu III. Dipinse queste tre opere in un solo giorno, il 4 marzo, seguendo un impulso interiore e lasciando la propria anima libera di esprimersi senza filtri.

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Joan Miró, Blu I, 1961. Olio su tela, 355 x 270 cm. Parigi, Musée National d’Art Moderne, Centre Pompidou.

Alle origini del tutto

Le tre tele presentano uno sfondo uniforme blu-azzurro, solcato da sottili linee nere e punteggiato da piccole macchie nere e rosse. Sono presenze essenziali, germinali, come fossero cellule o spermatozoi in un brodo primordiale.

Joan Miró, Blu II, 1961. Olio su tela, 355 x 270 cm. Parigi, Musée National d’Art Moderne, Centre Pompidou.

Si tratta di dipinti astratti, con tutta evidenza, forse i più decisamente astratti della carriera di un artista che aveva sempre agito ai margini estremi del figurativo.

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Mai come in questa esperienza artistica così radicale, Miró era riuscito a proiettare sulla tela i propri sogni e il proprio subconscio, lui che era stato definito il più istintivo dei surrealisti; mai in modo così efficace ed immediato era riuscito a dare forma e colore al suo automatismo psichico.

Joan Miró, Blu III, 1961. Olio su tela, 355 x 270 cm. Parigi, Musée National d’Art Moderne, Centre Pompidou.

Una ricerca esistenziale

La presenza del colore blu indica con chiarezza la natura tutta spirituale di questi dipinti, l’ispirazione profondamente poetica di un artista visionario che mostrava attraverso lo schermo della tela gli esiti di una ricerca esistenziale, il desiderio di proiettarsi in una dimensione primigenia che conferisca significato e senso alla nostra stessa esistenza.

Se Fontana aveva cercato l’infinito aprendo un varco nelle proprie tele, oltre cui sbirciare l’ignoto, se Rothko e Klein avevano concepito le proprie tele come finestre aperte su sconfinati cieli astratti oppure oblò che guardavano le profondità inesplorate di immaginari oceani, Miró sembra proiettarsi in una dimensione a-spaziale e anche a-temporale, come in un viaggio a ritroso nel tempo, fino all’origine del tutto, alla nascita della vita stessa.

Lucio Fontana, Concetto spaziale, Attesa, 1967-68. Olio su tela. Collezione privata.

In queste tre opere della maturità, Miró sembra volersi del tutto liberare dalla fantasmagoria di forme ed elementi che avevano da sempre caratterizzato la sua produzione, sembra voler abbandonare la giocosità infantile dei suoi precedenti disegni: avviandosi alla conclusione della sua esistenza terrena, pur non immaginando che sarebbe vissuto fino a 90 anni, lui che più di tutti era stato un pittore-bambino, pare fermarsi e fissare gli occhi verso un altrove che verosimilmente lo stava aspettando.

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Di lui scrisse un collega che molto lo ammirò in vita, Alberto Giacometti (1901-1966): «Per me era la libertà più grande. In un certo senso, la perfezione assoluta. Era così autenticamente pittore che gli bastava lasciar cadere tra macchie di colore su una tela perché questa esistesse e fosse un quadro». E questa, davvero, è la magia dell’arte.

Mark Rothko, No. 61 (Rust and Blue) [Brown, Blue, Brown on Blue], 1953. Olio su tela, 2,94 x 2,32 m. Los Angeles, The Museum of Contemporary Art, The Panza Collection.

I miroglifici

Il celebre scrittore e poeta francese Raymond Queneau (1903-1976) aveva coniato, nel 1949, un termine assai efficace per riferirsi alle opere pittoriche di Miró: miroglifici, come a dire “i geroglifici di Miró”. Perché questo pittore ha sempre parlato per segni, più che per immagini, segni misteriosi ma, nel contempo, perfettamente comprensibili, se si prova a leggerli non con la mente ma con l’immaginazione sconfinata di un bambino. «Per me una forma non è mai qualcosa di astratto», aveva detto l’artista; «è sempre il segno di qualcosa. Per me la pittura non è mai la forma per la forma».

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Alla scrittura ideografica di Miró si possono associare liberamente oggetti e concetti, facendosi guidare da quelle immagini così astruse, all’apparenza, ma che hanno la potenza evocativa di una poesia. «Una poesia deve essere letta nella sua lingua originale», ha scritto Queneau; «bisogna imparare il miró [inteso come lingua], e una volta che si sa (o che si crede di sapere) il miró, ci si può mettere a leggere le sue poesie».

Yves Klein, Accordo blu, 1960. Spugne, pigmento secco in resina sintetica su tavola, 198 x 163 x 13,5 cm. Amsterdam, Stedelijk Museum.


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