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Di tutta la pittura greca ci sono rimaste pochissime testimonianze. Si tratta di una perdita molto grave, poiché le fonti ci raccontano che la pittura rivestì una grande importanza nel mondo greco, ancor più della scultura (che non a caso veniva colorata, almeno quella in legno e pietra). I Greci amavano la pittura da cavalletto, ossia i dipinti su tavole di legno; ma essendo questo un materiale molto deperibile, di tali opere non è sopravvissuto alcun originale.
Anche abitazioni e palazzi, che avrebbero potuto custodire alcuni esemplari, sono andati distrutti nel corso del tempo, mentre le tombe e i templi non venivano, di norma, decorati ad affresco, almeno non con temi di tipo naturalistico. Le eccezioni, almeno quelle ritrovate, come la Tomba del tuffatore a Paestum, sono rarissime.
Neanche la pittura etrusca, che pure fu molto influenzata da quella greca, può fornirci molte informazioni se non alcune indicazioni generali, e le rare copie romane rimaste non sono quadri da cavalletto ma affreschi e mosaici, i cui temi, il più delle volte, sono stati riprodotti a memoria dai copisti. Delle opere dei grandi maestri greci non ci restano che le testimonianze letterarie, che ci consentono di avere oggi almeno un’idea, seppur vaga, del loro aspetto originario.
In mancanza delle opere originali, considerando l’influenza che i pittori da cavalletto sicuramente ebbero sulla produzione di chi dipingeva i vasi, gli studiosi hanno cercato di ricostruire il linguaggio della pittura greca attraverso l’arte della pittura vascolare o ceramografia (ossia pittura su ceramica, dal greco kèramos, ‘argilla’, e gràphos, ‘scritto’, ‘disegnato’).
Peraltro, per decorare i propri manufatti, molti vasai si avvalsero della collaborazione di famosi pittori, che giunsero a firmare le proprie opere. La storia della ceramografia greca è vastissima, nonché oggetto di studi specialistici e annovera centinaia di pezzi e decine di autori, alcuni dei quali ritenuti di primissimo piano. Certo è che la pittura vascolare greca, nonostante gli altissimi livelli raggiunti, può essere considerata solo un pallido riflesso della cosiddetta “grande pittura”.
I contatti sempre più frequenti fra la Grecia, l’Egitto, la Fenicia, la Siria e la Mesopotamia influenzarono lo sviluppo della ceramografia greca, tra il 750 e il 680 a.C. Durante l’età arcaica, il periodo della storia greca compreso tra il VII e l’inizio del V secolo a.C., la produzione dei laboratori ceramici in Grecia fu difatti molto intensa, poiché dovette soddisfare una grande richiesta di oggetti e utensili: vasi preziosi e di uso quotidiano, vasellame da cucina, contenitori per profumi, lucerne ma anche giocattoli e statuette votive.
I magnifici vasi dipinti, destinati all’esportazione e all’ornamento delle abitazioni delle classi agiate, non avevano sempre un uso pratico, perché spesso servivano a rendere più solenni cerimonie e banchetti o erano destinati ai corredi funerari. È questo il motivo per cui abbiamo ritrovato così tanti vasi: le tombe, infatti, conservano a lungo anche gli oggetti più delicati.
Abbandonati, in parte, i fitti motivi geometrici che avevano dominato il repertorio decorativo durante il Medioevo ellenico, e le schematiche raffigurazioni del tardo Periodo geometrico, ben testimoniate dalla magnifica Anfora funeraria del Dipylon, la ceramica si concentrò su un nuovo tipo di ornamentazione, lasciando ampio spazio alla rappresentazione dell’uomo e degli animali, seppure ancora molto schematica.
Furono prediletti soggetti di carattere militare, cioè navi da guerra con soldati, uomini in marcia, o di natura mitologica, come il Giudizio di Paride o l’Accecamento di Polifemo, o ancora soggetti venatori, ossia relativi alla caccia, con cani all’inseguimento di stambecchi e battute di caccia al leone, resi con vivacità e con nuovo senso del movimento. Si trattava di scene del tutto prive di tensione narrativa e mancava la resa dello spazio e del volume; le immagini mantenevano ancora una funzione prettamente decorativa.
La gran parte dei vasi greci dipinti presenta solo due colori: il rosso naturale della terracotta e il nero della vernice. Le tecniche utilizzate furono sostanzialmente due. La prima, più antica e diffusa, è detta “a figure nere”. In questo caso, sul vaso si disegnava con il nero la decorazione, lasciando per il fondo il rosso della terracotta. I contorni e i particolari delle figure, come le linee della muscolatura, si ottenevano raschiando via il colore con una punta metallica per far emergere il fondo rosso; il disegno veniva poi arricchito con tocchi di bianco e di rosso.
La seconda tecnica, più recente, è detta “a figure rosse”. Era ottenuta dipingendo di nero il fondo del vaso e lasciando visibile, nelle figure principali, il colore rossiccio della terracotta. I particolari della decorazione erano poi realizzati a pennello, utilizzando il nero e altri colori.
La tecnica a figure rosse era più raffinata di quella a figure nere e consentiva di ottenere immagini più dettagliate e maggiori effetti chiaroscurali; era però anche molto più complessa e richiedeva tempi di realizzazione più lunghi: i prodotti finiti risultavano quindi più costosi degli altri. Fu per questo motivo che la ceramica a figure nere non tramontò con l’affermazione di quella a figure rosse, e che i vasi dipinti con questo più antico sistema decorativo circolarono fino al II sec. a.C.
Un nuovo stile decorativo vascolare, detto orientalizzante, iniziò a diffondersi soprattutto nella città greca di Corinto, già nota da tempo nei mercati esteri per i suoi pregevoli prodotti artigianali. L’Olpe Chigi (640-630 a.C.), per le sue numerose scene figurate, è considerata il capolavoro dello stile vascolare corinzio.
Si tratta di una brocca caratterizzata da corpo ovoidale, ampio orlo svasato e ansa unica, arricchita da una decorazione a fregi sovrapposti che presentano una calcolata alternanza di soggetti. Sotto l’ansa è raffigurato l’episodio mitologico del Giudizio di Paride. Sul corpo, invece, si dispiegano una Scena di caccia alla lepre e alla volpe, una Processione di cavalieri con un carro, una Caccia al leone e, infine, alcune figure di Cani che inseguono la selvaggina, dispiegate in una fascia sottile.
Il registro superiore ospita Schiere di opliti (fanti armati di scudo e lancia) pronti alla battaglia che marciano al suono di un flauto. La scena è l’unica illustrazione giunta fino a noi della falange oplitica: lo schieramento a ranghi serrati di soldati avanzava portando lo scudo a sinistra, proteggendo così quella parte del proprio corpo e il compagno vicino. In questo caso il pittore, per mostrare le insegne degli scudi, ha scelto di diradare i guerrieri solo nella parte destra della scena, mentre a sinistra (dove gli scudi possono vedersi soltanto dall’interno) i fanti sono più fittamente sovrapposti: la ricerca di movimento si fonde con una più consapevole rappresentazione dello spazio.
Sul finire del VII secolo a.C., la produzione ceramica di Corinto entrò in crisi a vantaggio dell’Attica, la regione greca con capitale Atene, che conobbe un momento di grande fervore produttivo. Se il commercio di manufatti corinzi, infatti, fu presto sostituito da quello attico, fu merito di alcuni artisti ateniesi che iniziarono a prendere le distanze dallo stile decorativo orientaleggiante delle origini, rimasto leggermente schematico, per produrre una pittura caratterizzata da scene a carattere narrativo abilmente composte.
I pittori vascolari erano artigiani molto apprezzati e dunque orgogliosi della loro arte; di fatto, essi furono i primi artisti dell’antichità a firmare le proprie opere. È per questo motivo che conosciamo il nome di due insigni maestri della pittura a figure nere, Ergòtimos (vasaio) e Kleitìas (pittore), autori del monumentale Vaso François, uno dei più belli dell’età arcaica.
Realizzato tra il 570 a.C. e il 560 a.C., questo cratere attico deve il suo nome allo scopritore Alessandro François, che lo riportò alla luce, sia pure in frammenti e largamente lacunoso, da una tomba di Chiusi, in Etruria, nel 1844. Il vaso è interamente rivestito da una ricchissima decorazione, composta da 270 figure – identificabili da 121 iscrizioni e distribuite lungo 6 fasce sovrapposte – realizzate con uno stile rispettoso delle convenzioni pittoriche del tempo, cioè privo di apporto chiaroscurale e di senso spaziale.
I particolari sono resi, tuttavia, con estrema minuzia e alcune scene si distinguono per la naturalezza e la vivacità delle immagini. Sul piede del vaso è dipinto un motivo comico, raffigurante La lotta dei pigmei contro le gru seguito da alcuni gruppi di animali. La fascia figurata inferiore accoglie due scene: L’agguato di Achille a Troilo sotto le mura di Troia e Il ritorno di Efesto all’Olimpo.
Nella campitura più ampia si ammira La processione degli dèi alle nozze di Peleo e Teti (i genitori di Achille). Anche il collo del cratere, come il resto del vaso, è interamente dipinto. La sua parte inferiore è occupata da due scene: La corsa dei carri in memoria di Patroclo e Lo scontro dei Lapiti e dei Centauri; la parte superiore mostra invece La caccia al cinghiale di Calidone e Lo sbarco a Delo di Teseo con i fanciulli salvati dal Minotauro.
Sulle anse delle volute che fungono da manici sono raffigurate alcune scene tratte dalla “Vita di Achille”: le mitiche nozze dei suoi genitori, la profanazione compiuta uccidendo il figlio di Priamo in un luogo sacro, la morte dell’amato compagno Patroclo, la sua stessa morte e, infine, il trasporto del suo corpo. Nel particolare con Aiace che trasporta il cadavere di Achille, soggetto ricorrente della ceramografia greca, la rappresentazione delle proporzioni è volutamente errata: Aiace, che porta il cadavere dell’amico sulle spalle, è rappresentato molto più basso di lui, almeno la metà: si trattava evidentemente di una scelta simbolica, per sottolineare la differenza di importanza e di rango fra i due eroi omerici.
Exechìas, considerato il più grande dei pittori vascolari greci di età arcaica, fu attivo fra il 550 e il 525 a.C. Fu anche ceramista e seppe trattare con grande originalità i temi mitologici tradizionali, selezionando singole scene che fissava in immagini cariche di tensione o drammaticità. È certamente sua, in quanto firmata, l’Anfora di Achille e Aiace, un manufatto che presenta una bellissima scena idealmente ritagliata nella vernice nera: si tratta di Achille e Aiace, i due mitici eroi omerici, che giocano a dadi in una breve pausa della battaglia in corso.
Secondo un’antica tradizione, infatti, il gioco dei dadi sarebbe stato inventato da un guerriero greco durante la guerra di Troia, per vincere la noia e scaricare la tensione. I due eroi sono curvi sul gioco (e le scritte “tre” e “quattro” che compaiono davanti ai loro volti ci informano anche dei punti ottenuti dopo il lancio).
Sono raffigurati di profilo, con le lance appoggiate alle spalle, e hanno le vesti e i capelli minutamente decorati. Nonostante la stilizzazione delle figure (la cui posizione asseconda le forme del vaso) e la permanenza di alcuni arcaismi (si noti l’occhio frontale), la scena si presenta grandiosa e solenne e la sua composizione è perfettamente equilibrata. Per contro, l’atteggiamento disinvolto dei due guerrieri riesce a calare il mito nel quotidiano.
Fu alla fine del VI sec. a.C. che si diffuse la cosiddetta ceramica a figure rosse. Il più importante centro di produzione fu Atene, dove, nel cosiddetto quartiere Ceramico, i numerosi laboratori lavoravano per soddisfare le richieste del mercato estero. Il pittore Sosia, attivo agli inizi del V sec. a.C., dipinse la bellissima Kylix di Achille e Patroclo decorata con una scena in cui Achille cura il braccio ferito di Patroclo.
Il gruppo è inserito in uno spazio immaginario nel quale Patroclo, seduto sul proprio scudo, volta la testa e digrigna i denti per resistere al dolore. Con la gamba sinistra, Patroclo si puntella contro il bordo della coppa mentre la gamba destra è mostrata di scorcio, ossia piegata e rivolta verso lo spettatore, in un’ardita posizione prospettica.
Le figure sono ancora chiuse nella semplice linea di contorno: eppure, il disegno raffinatissimo e la perfezione dei modi riescono a suggerire efficaci effetti plastici. I volti, dipinti di profilo, per la prima volta non hanno più gli occhi rappresentati frontalmente. È ammirevole il tentativo di rendere il sentimento di premurosa amicizia che legava i due eroi: d’altro canto, il soggetto è una pura invenzione dell’artista, giacché non ci risulta dalla mitologia che Achille abbia mai medicato Patroclo.
Sappiamo da Plinio il Vecchio, storico e naturalista latino del I sec. d.C., il quale lo scrisse nella sua Naturalis Historia, che la pittura greca arcaica, come quella egizia e minoico-micenea, fu di tipo lineare, con contorni che definivano i profili delle figure, completati da campiture monocrome, cioè dalla stesura di colori uniformi. Anche la pittura vascolare greca, a causa delle tecniche utilizzate, fu lineare.
Osserviamo che, in generale, la linea è usata dagli artisti per raffigurare un’immagine. Essa può essere talvolta utilizzata come mezzo espressivo autonomo: in questo caso, si impone come elemento qualificante dell’intera immagine. Ciò accade, per esempio, nell’arte astratta del XX secolo, che rinunciò alla rappresentazione dell’oggetto. Normalmente, però, una linea continua, detta di contorno, delimita la forma di una figura e la rende riconoscibile. Una figura ottenuta solo attraverso una linea di contorno e in assenza di chiaroscuro appare priva di volume, sviluppata su un solo piano. È questo il caso della pittura egizia.
Anche gli artisti greci, e soprattutto i ceramografi, furono soliti rappresentare uomini e oggetti usando linee di contorno; tuttavia, a differenza di quelli egizi, essi tentarono di suggerire uno sviluppo delle figure nello spazio. Ad esempio, assottigliarono o inspessirono le linee in modo da sottoporre le figure a un tenue effetto di luce e ombra. Inoltre, fecero ricorso a minuti particolari, capaci di “riempire” i contorni e di suggerire l’impressione della massa.
Le principali fonti letterarie da cui, per secoli, i ceramisti greci (come peraltro i pittori e gli scultori) trassero ispirazione per le proprie opere furono l’Iliade e l’Odissea del poeta greco Omero, vissuto nell’VIII secolo a.C. Sebbene fin dall’antichità siano stati formulati dubbi sulla reale esistenza di questo autore, egli è normalmente ritenuto figura storica.
La critica, basandosi sulla tesi della non esistenza della scrittura al tempo del poeta, ha tuttavia accettato l’ipotesi che i due poemi siano il risultato di una operazione redazionale successiva alla sua morte, finalizzata a dare unità artistica al materiale omerico tramandato oralmente. I protagonisti delle opere omeriche, soprattutto dell’Iliade, furono frequentemente rappresentati dai ceramisti greci. Ricordiamone qualcuno.
Agamennone, re di Argo e di Micene, guidò la spedizione greca a Troia. Al ritorno fu assassinato dalla moglie Clitennestra, che non gli aveva perdonato il suo consenso al sacrificio della figlia Ifigenia, reputato necessario per placare la collera della dea Artemide e per non compromettere l’impresa.
Menelao, fratello minore di Agamennone, sposò Elena, figlia del re di Sparta, e succedette al suocero sul trono. Dopo il rapimento di Elena da parte di Paride, organizzò la spedizione a Troia. Riavuta la moglie alla caduta della città, decise di perdonarla.
Paride, figlio del re di Troia Priamo, era famoso per la sua bellezza. Scelto da Zeus come giudice tra Era, Atena e Afrodite per l’assegnazione della mela d’oro destinata alla dea più bella, egli assegnò la vittoria ad Afrodite, che gli aveva promesso in cambio l’amore della bellissima Elena. Recatosi a Sparta, Paride convinse Elena a fuggire con lui, provocando così la guerra contro Troia.
Achille, figlio di Peleo, re di Ftia, e della dea Teti, è il personaggio centrale dell’Iliade. La madre, tenendolo per il tallone, lo immerse neonato nello Stige (uno dei fiumi degli Inferi) con l’intento di renderlo immortale; il tallone rimase però l’unica parte vulnerabile del suo corpo. Fu ucciso da Paride, che lo colpì proprio in quel punto con l’aiuto di Apollo.
Patroclo fu legato ad Achille da un’intensa amicizia. Durante la guerra di Troia, mentre indossava l’armatura dell’amico, fu ucciso da Ettore, figlio del re troiano Priamo. Achille, al funerale di Patroclo, sacrificò 12 troiani; quindi, tornato in battaglia, lo vendicò uccidendo Ettore
Ulisse (o Odìsseo) è uno dei personaggi principali dell’Iliade ma è anche il protagonista dell’Odissea, che da lui prende il nome. Al contrario di Achille, il quale agiva normalmente in preda all’ira, egli è descritto come un uomo intelligente e astuto. Fu lui a escogitare l’inganno del grande cavallo di legno che permise ai Greci, nascosti al suo interno, di varcare le mura di Troia e di vincere la guerra.
Vi sono poi due eroi greci che avevano nome Aiace: Aiace d’Oìleo, capace di superare tutti i Greci nello scagliare la lancia, e il più veloce nella corsa dopo Achille; e Aiace Telamònio, che persa la contesa con Ulisse per l’eredità delle armi di Achille, fece strage di mandrie e greggi e poi si uccise.