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Venere, dea greco-romana dell’amore e della bellezza femminile, è certamente il personaggio mitologico più rappresentato nella storia dell’arte e senza dubbio il più celebre. Non solo nel mondo antico, infatti, ella fu oggetto di attenzione dei grandi scultori: anche in età cristiana, nel Rinascimento e ancora nel XVII, XVIII e XIX secolo, complice il suo irrestistibile fascino, divenne protagonista di quadri e sculture. Tra i memorabili capolavori che la videro trionfare nella sua seducente nudità, ricordiamo la Venere di Dresda di Giorgione e la Venere di Urbino di Tiziano.
La Venere addormentata, detta anche Venere di Dresda, è uno tra i più grandi e celebrati capolavori di Giorgione (1477-1510), pittore rinascimentale ammiratissimo ed eccelso, esponente di spicco della scuola veneta.
L’opera, commissionata da Gerolamo Marcello in occasione delle proprie nozze (celebrate nel 1507), presenta la dea sdraiata su un prato, all’ombra di un grande cespuglio, sopra una coltre di morbide stoffe di seta. La dea si gode il calore del pomeriggio estivo, abbandonandosi al silenzio di una radiosa giornata in campagna; il paesello sullo sfondo appare deserto e certamente nessuno turberà il suo riposo. Era, questa, una novità iconografica molto importante. Il soggetto evoca, con la sua posa, il tema antico della Venere pudica; associando il tema del paesaggio al nudo classico; tuttavia, Giorgione propose un’invenzione artistica semplice, dolce e castamente sensuale, creando un’immagine destinata ad avere uno straordinario successo. Si tratta di un’opera pittorica fondamentale per la sua originalità: neanche le opere famose dell’antichità avevano infatti presentato una dea così intensamente femminile, sdraiata con tanta sensuale naturalezza, quasi inconsapevole della propria nudità.
Il paesaggio abbandona il suo ruolo tradizionale di sfondo per assumere un significato nuovo, di importanza pari a quella che possiamo attribuire alla scena in primo piano. Questo paesaggio costituisce prima di tutto un ideale poetico: rappresenta, infatti, la natura amica, con la quale l’uomo può vivere sereno e in assoluta armonia.
Secondo la testimonianza di Marcantonio Michiel, la Venere di Dresda non era stata ancora ultimata alla morte dell’artista; così, due anni dopo, fu richiesto l’intervento di Tiziano (1488/90- 1576), amico e collaboratore di Giorgione, il quale avrebbe agito sul paesino dello sfondo e avrebbe aggiunto un Cupido, poi cancellato in un secondo tempo. Alcuni storici propendono ad attribuire a Tiziano anche il setoso lenzuolo bianco su cui è sdraiata la dea e il vellutato cuscino rosso su cui appoggia la testa. Si tratta, in fondo, di un ideale passaggio di consegne: il genio silenzioso, solitario e intellettuale di Giorgione avrebbe lasciato campo al versatile e prolifico Tiziano, che avrebbe portato la pittura veneziana ad essere la più ammirata e ricercata in tutta Europa.
Si deve proprio a Tiziano la realizzazione di un altro celebrato capolavoro del Rinascimento veneto: la Venere di Urbino, commissionatagli nel 1538 da Guidubaldo II della Rovere, duca di Urbino. Questi, per ragioni politiche, aveva sposato, quattro anni prima, Giulia Varano da Camerino, all’epoca di appena dieci anni.
Il quadro intende sottolineare l’importanza della dimensione erotica all’interno del matrimonio. Nonostante l’evidente legame iconografico con la precedente Venere di Dresda di Giorgione, la dea tizianesca è infatti meno idealizzata e, anzi, mostra con malcelato pudore la sensualità del proprio corpo, consapevole della propria bellezza.
È sdraiata mollemente nel letto disfatto di una camera signorile, dove due domestiche le stanno prendendo i vestiti da un baule nuziale. Puntando lo sguardo invitante allo spettatore, quasi con intento seduttivo, ella sembra volerlo condurre in un mondo dominato dall’eros.
Ma se le rose che Venere tiene in mano, i suoi capelli sciolti e le lenzuola disfatte sono evidenti simboli erotici, l’anello al dito, il cane (simbolo di fedeltà coniugale) acciambellato ai piedi della donna e la pianta di mirto sul davanzale rimandano al tema del matrimonio e dell’amore eterno e giustificano la destinazione del dipinto, con il quale Guidubaldo voleva fornire un modello erotico appropriato e culturalmente elevato alla sua giovanissima sposa.
I colori morbidi e i toni ambrati del corpo della dea e del biondo ramato dei suoi capelli assecondano accortamente la dolce e rassicurante sensualità della scena, mentre il rosso del materasso e dei fiori, così allusivo di incontenibili passioni, è controllato dal bianco latteo del lenzuolo e dei cuscini, che a cascata si riversa sull’osservatore.
Esaustivo come sempre
Estremamente chiaro ed efficace!
ottimo