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Le Veneri greche: il pudore di Afrodite
L’omaggio eterno dell’arte alla bellezza femminile.
Autore: Giuseppe Nifosì Pubblicato in La civiltà greca – Data: Agosto 1, 2019 1 commento 8 minuti
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Le prime rappresentazioni della dea Afrodite, in Grecia, risalgono a tempi assai remoti: Pausania, per esempio, fa riferimento ad antichissimi simulacri templari in legno (detti “xoana”) dedicati a questa divinità. Tuttavia, in età arcaica e ancora durante la prima età classica, furono piuttosto Era, Atena e Artemide a essere maggiormente venerate e dunque celebrate dagli artisti.

Le immagini di Afrodite prodotte prima del IV secolo a.C. erano piuttosto diverse da quelle cui noi, oggi, istintivamente pensiamo (complice anche la sconfinata iconografia rinascimentale e barocca): la sensuale dea dell’amore infatti era sempre rigorosamente vestita. Pensiamo alla cosiddetta Afrodite Sosandra dello scultore Calamide (465 a.C.), un tempo collocata sulla via di accesso all’Acropoli di Atene, la quale si presentava solennemente avvolta nel suo pesante mantello e mostrava solo il volto e la mano sinistra.

Calamide, Afrodite Sosandra, copia romana da un originale del 465 a.C. Marmo. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

L’Afrodite di Prassitele

Fu lo scultore greco Prassitele a rinnovare l’iconografia della dea, da lui mostrata per la prima volta nuda e apparentemente vulnerabile nel 360 a.C. Prassitele era famoso come lo scultore della chàris, cioè della grazia. Del periodo in cui visse, segnato da profonde inquietudini, egli seppe dimostrarsi un interprete sensibile, dando voce a un nuovo sentimento, espresso talvolta come tenerezza, a volte come velata malinconia o come una sorta di assenza trasognata. I suoi soggetti incarnano stati d’animo inquieti o sottilmente turbati e sono sempre, delicatamente, animati dall’eleganza dei gesti. Realizzò l’Afrodite Cnidia, considerata uno dei suoi massimi capolavori, in bronzo intorno al 360 a.C.

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Prassitele, Afrodite Cnidia, copia antica da un originale del 360 a.C. Marmo, altezza 2,15 m. Roma, Musei Vaticani.

L’opera, oggi nota attraverso alcune copie romane, è così chiamata perché gli venne commissionata dagli abitanti di Cnido, una città dell’Asia minore, i quali ne furono così contenti da collocarla al centro di un tempietto circolare. La dea, mostrata nel momento in cui sta per immergersi nell’acqua del suo bagno sacro, si presenta frontalmente. Poiché sostiene il peso del corpo con la gamba destra, è sostanzialmente ponderata. Tuttavia, la sua torsione del busto a sinistra, le ginocchia accostate e il gesto aggraziato di abbandonare la veste comunicano un sottile senso di instabilità.

Afrodite è una dea che incarna il sentimento umano per eccellenza, l’amore, quindi la scelta di preferirla a divinità più tradizionali, come la guerriera Atena o la fredda Artemide, peraltro entrambe vergini e schive, è di per sé significativa. Per di più, quella nudità così casta e così disarmante rende la dea in apparenza vulnerabile. Solo in apparenza: si comprende subito, infatti, che non sono lancia, scudo e frecce le “armi” da lei privilegiate.

L’Afrodite Medici

La delicata Afrodite Cnidia divenne un modello di riferimento indiscusso per gli scultori greci della generazione successiva, che ne riproposero l’immagine intensamente femminile e castamente erotica, più terrena che divina, colta in atteggiamenti quotidiani e senza particolari intenti celebrativi. Le nuove statue di Afrodite, infatti, rappresentarono semplicemente belle donne dalla piena carnalità. Mai volgari, anzi generalmente pudiche, alcune di esse si coprono il seno e il pube con le mani, nell’atteggiamento ritroso di chi cerca di nascondere la propria nudità, e hanno le ginocchia ravvicinate e i piedi quasi uniti. Una delle più celebrate rappresentazioni della dea dell’amore è la cosiddetta Afrodite Medici.

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Afrodite Medici, copia antica da un originale del III sec. a.C. Marmo. Firenze, Uffizi.

Si tratta della copia antica, in marmo, di un originale del III secolo a.C. Tuttavia, alcuni studiosi propendono per considerarla un originale, databile alla fine del I secolo a.C. Sulla base si trova la firma di “Cleomene figlio di Apollodoro”, ma non è chiaro se si tratti del copista o dell’autore. L’opera fu ritrovata, nel XVI secolo, nella Villa di Adriano a Tivoli; acquistata probabilmente da Ferdinando dei Medici (quinto figlio maschio del granduca Cosimo I), fu a lungo conservata a Villa Medici, a Roma, per poi essere trasferita, nel 1677, a Firenze, nella Tribuna degli Uffizi.

La statua è chiaramente una variante dell’Afrodite Cnidia di Prassitele: con atteggiamento pudico, e assoluta grazia, la dea si appresta ad entrare nell’acqua del suo bagno sacro. Un grande cigno e un amorino che cavalca un delfino, prossimi alla sua gamba sinistra, ne aumentano la stabilità. Un recente restauro (2012) ha rivelato tracce dell’originaria doratura nei capelli e fori nei lobi delle orecchie, per cui, certamente, un tempo la scultura era integrata da orecchini e forse altri gioielli.

L’Afrodite accovacciata

Decisamente più originale fu la scelta di Dedalsa (o Doidalsa), un artista originario della Bitinia, in Asia Minore, attivo nella seconda metà del II secolo a.C., il quale scolpì una Afrodite accovacciata, forse in bronzo. Prima che l’originale andasse perso, ne furono tratte molte copie ed elaborate numerose varianti, che ne attestano la straordinaria fortuna.

Dedalsa, Afrodite accovacciata, detta Afrodite Lely, copia romana del II sec. d.C. da un originale ellenistico. Marmo, altezza 1,12 m. Londra, British Museum.

La dea è mostrata in atteggiamento del tutto naturale, mentre attende che qualcuno le versi l’acqua sulla schiena. La posa è resa delicatamente sensuale dall’audace torsione avvolgente del busto ruotato a sinistra, mentre la testa è girata verso destra. Il suo corpo di donna, di una pienezza carnale mai ottenuta prima, è esaltato dalle pieghe del ventre, che suggeriscono morbidezza delle carni e conferiscono alla dea una forte femminilità. Il viso, tondeggiante, è impreziosito dai capelli a lunghe ciocche ricciute, un tempo raccolte in un nodo alla sommità del capo.

Come suggeriscono alcune delle copie, per esempio la cosiddetta Afrodite Lely del British Museum a Londra, la dea teneva le braccia dolcemente piegate attorno al corpo: la destra a coprire il seno e sfiorare la spalla, la sinistra a proteggere il ventre. In alcune varianti, come nel caso dell’Afrodite accovacciata con Eros del Museo Archeologico Nazionale di Napoli, la dea è accompagnata dal figlio.

L’Afrodite di Milo

Proviene dall’isola di Milo, nelle Cicladi, l’Afrodite di Milo, forse una delle opere più famose di tutto il mondo antico. Si tratta di un probabile originale, attribuito ad Alessandro di Antiochia.

Alessandro di Antiochia, Afrodite di Milo, 130-120 a.C. Marmo, altezza 2,02 m. Parigi, Musée du Louvre.

Legata al tipo dell’Afrodite Cnidia di Prassitele, la dea seminuda presenta una progressiva e delicata torsione verso sinistra (che senza dubbio le braccia, oggi perdute, contribuivano a evidenziare), controllata e bilanciata, in un mirabile equilibrio, dalla gamba sinistra, piegata a trattenere la veste che sta scivolando. Autorevole e sensuale, la dea mostra il suo bel corpo vitale e tornito, dai fianchi larghi e dal seno sodo. Lo sguardo malinconico e lontano ne fa un capolavoro di misura e di buon gusto, uno degli ultimi della lunga storia dell’arte greca.

Alessandro di Antiochia, Afrodite di Milo, 130-120 a.C. Particolare.
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Alessandro di Antiochia, Afrodite di Milo, 130-120 a.C. Particolare.
L’Afrodite a cassetti

«Dipingere è una parte infinitamente piccola della mia personalità»: così usava dire Salvador Dalí, maestro del Surrealismo novecentesco, che in effetti nella vita non fu solo pittore ma un artista poliedrico, in quanto performer, regista, designer e anche scultore. Dalí s’interessò alla scultura sin dai primi anni Trenta. In realtà, egli amò riproporre in forma tridimensionale i principali elementi, motivi e temi della sua pittura, come nel caso dei celeberrimi orologi molli, che realizzò in bronzo, in varie versioni, sino alla fine della carriera. Tra le sue opere scultoree più famose è la Venere di Milo con cassetti, anch’essa realizzata in varie versioni.

In questa scultura, ricavata da un calco del capolavoro greco, e allo stesso modo che nelle sue opere pittoriche la simbologia psicoanalitica risulta evidente: i cassetti sono i luoghi reconditi del nostro inconscio in cui nascondiamo tabù, paranoie, paure. All’artista è affidato il compito di aprire quei cassetti e di frugarvi alla ricerca della vera essenza dell’uomo. Dalí lo affermò con grande chiarezza: «L’unica differenza tra la Grecia immortale e l’epoca contemporanea è Sigmund Freud, il quale ha scoperto che il corpo umano, puramente neoplatonico all’epoca dei Greci, è oggi pieno di cassetti segreti che solo la psicoanalisi è in grado di aprire».

Dalí fu sempre molto affascinato dall’arte antica (le citazioni di opere classiche sono assai ricorrenti nella sua pittura), rinascimentale e seicentesca, soprattutto spagnola (amava in particolar modo Velasquez). Ebbe una formazione accademica e per questo indulse spesso nel virtuosismo artistico. D’altro canto, il suo intento fu sempre quello di riportare la trasgressione all’interno della “bella” arte. Per questo scelse, per quest’opera, proprio la figura della Venere di Milo, modello astratto di bellezza universale e di perfezione artistica.

Salvador Dalí, Venere di Milo con cassetti, 1936. Gesso, altezza 1 m. Parigi, Collezione privata.

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