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Alla fine del XIX secolo, negli anni in cui si diffondeva la moda dei ritratti fotografici, il grande pittore olandese Vincent Van Gogh (1853-1890) difese ostinatamente il ritratto pittorico, sostenendo che «i ritratti dipinti hanno una vita propria che si origina dall’anima del pittore e che nessuna macchina può catturare». Fu ad Arles, in particolare, che Vincent eseguì i suoi ritratti più celebri. Questi dipinti, per i colori, gli sfondi, le ambientazioni, ci appaiono abbastanza realistici; poi, se li osserviamo con maggior attenzione, comprendiamo che l’apparente tranquillità di quei personaggi nasconde qualcosa di molto più profondo: le sensazioni, le emozioni dell’artista medesimo.
Nel Ritratto del postino Roulin, per esempio, il personaggio è raffigurato in posa, nella sua bella uniforme dalle numerose sfumature di blu, ravvivato dagli inserti oro dei bottoni e delle decorazioni. Più che sé stesso, Roulin sembra voler interpretare un ruolo che Van Gogh aveva pensato per lui. Il postino era infatti un uomo saggio, pacato e rassicurante e in qualche modo si prendeva cura dell’artista; Vincent, in una lettera a Theo, lo aveva paragonato al filosofo greco Socrate. Di lui scrisse al fratello Theo: «Roulin non è certo abbastanza anziano da potermi essere padre, e tuttavia dimostra nei miei confronti quella particolare gravità e quella tenerezza che potrebbe avere un soldato anziano verso uno giovane. [Non è] un uomo né amareggiato, né triste, né perfetto, né felice, né sempre irreprensibilmente equanime. Ma è una persona così buona, tanto saggia e piena di sentimento, e tanto fiduciosa».
In un’altra lettera a Theo, Vincent fa riferimento a un suo ritratto cogliendo il pretesto per esprimere alcune considerazioni in merito alla propria pittura. Si tratta del Ritratto di Patience Escalier, un ex bovaro, poi giardiniere, che Van Gogh aveva conosciuto ad Arles. L’opera di cui Vincent parla nella lettera oggi fa parte di una collezione privata. Una seconda versione si trova a Pasadena, in California, al The Norton Simon Museum of Art.
«Mio caro Theo, fra poco conoscerai Messer Patience Escalier, un tipo di uomo dei campi, vecchio bovaro della Camargue, attualmente giardiniere in una cascina della Crau. Oggi stesso ti mando il disegno che ho tratto da quello studio, come pure il disegno del ritratto del postino Roulin. […] Ora tu sei cambiato, ma vedrai che lui non è cambiato, ed è un vero peccato che a Parigi non ci siano più quadri in zoccoli.
Non credo che il mio contadino possa sfigurare per esempio con il Lautrec che tu hai, e oso persino credere che il Lautrec diventerà per contrasto immediatamente ancora più distinto, e anche il mio guadagnerà dall’accostamento strano, perché la pelle bruciata e abbronzata dal gran sole e dall’aria aperta risalteranno ancor più accanto alla polvere di riso e alla toilette elegante. […] Solo che io trovo che ciò che ho imparato a Parigi se ne va e io ritorno alle idee che mi erano venute in campagna, prima di conoscere gli impressionisti.
Non sarei per nulla stupito se fra poco gli impressionisti trovassero da ridire sul mio modo di dipingere, che è stato fecondato più dalle idee di Delacroix che dalle loro. Perché invece di cercare di rendere esattamente ciò che ho davanti agli occhi, mi servo del colore in modo più arbitrario per esprimermi con intensità».
Già in questo stralcio della lettera emergono alcuni dati interessantissimi: la presa di distanza dagli impressionisti, innanzi tutto, benché questi avessero avuto un ruolo fondamentale nella sua scoperta del colore; la netta percezione di appartenere più alla grande famiglia degli artisti romantici che a quella dei realisti; la teorizzazione del colore arbitrario e la connotazione della propria arte come “espressiva”.
Per spiegare a Theo cosa intendeva per colore arbitrario, nella medesima lettera Vincent immaginò di voler dipingere il ritratto di un artista sognatore, che non facciamo fatica a identificare con Van Gogh medesimo: «Comunque, lasciamo stare la teoria, voglio darti un esempio di ciò che intendo dire. Vorrei fare il ritratto di un amico artista che sogna i grandi sogni, che lavora come l’usignolo canta, perché è questa la sua natura. Quest’uomo dovrebbe essere biondo. E vorrei mettere nel quadro la stima e l’amore che ho per lui. Lo ritrarrei dunque così come è, più fedelmente possibile, per cominciare.
Ma il quadro non sarebbe terminato così. Per finirlo farò il colorista arbitrario. Esagererò il biondo dei capelli, arrivando ai toni arancione, ai gialli cromo, al limone pallido. Dietro la testa, invece di dipingere il muro banale del misero appartamento, dipingerò l’infinito, farò uno sfondo semplice del blu più ricco, più intenso che riuscirò ad ottenere; da questa semplice combinazione, la testa bionda, illuminata su questo blu sontuoso, rende un effetto misterioso come di stella nell’azzurro profondo.
Nel ritratto del contadino [qui si riferisce al Ritratto di Patience Escalier] mi sono regolato con lo stesso sistema. Tuttavia, senza pretendere, in questo caso, di evocare lo splendore misterioso di una pallida stella dell’infinito. Ma immaginando l’uomo terribile che dovevo fare in mezzo al forno della mietitura, in pieno mezzogiorno. Da ciò gli arancioni sfolgoranti come ferro arroventato, da ciò i toni di oro vecchio luminoso nelle ombre». Esagerare i colori, secondo la poetica di Van Gogh, e dunque allontanarsi dalla resa naturalistica della pittura, era funzionale ad andare oltre l’immagine stessa, per rimandare a significati più profondi, più intensamente esistenziali.
L’intenso, talvolta doloroso “sentire” di Van Gogh si percepisce soprattutto nei suoi tanti autoritratti: ne conosciamo ben 37. Opere in cui l’artista punta gli occhi su sé stesso, piuttosto che su di noi, come a voler cercare una prova della sua esistenza o a voler verificare la fondatezza della sua malattia. Nell’Autoritratto con cappello di feltro, Vincent si ritrasse di tre quarti, magrissimo, con le labbra serrate, gli occhi fissi e inquieti, lo sguardo profondo, «fermo nella sua monumentale compostezza di contadino» (A.Boatto). Sembra chiedersi: “chi sono io?”. Il volto, il cappello, il vestito, lo sfondo sono ottenuti accostando dense pennellate colorate: è una originalissima interpretazione della lezione impressionista e neoimpressionista. Lo sfondo mosso, ipnotico e vorticoso prende vita con onde centrifughe che sembrano l’emanazione del suo pensiero.
Un altro famoso autoritratto ci aiuta a conoscere profondamente l’animo di Van Gogh: comprendiamo, osservandolo, che solo un uomo dotato di una lucidità impressionante avrebbe potuto fissare lo sguardo così direttamente sulla sua anima. «Pazzo Van Gogh? Chi, un giorno, è stato capace di guardare un volto umano, osservi l’autoritratto di Van Gogh. Non conosco un solo psichiatra capace di scrutare un volto umano con la stessa forza e la stessa potenza, di sezionarne spietatamente l’inconfutabile psicologia».
Così notò, magistralmente, lo scrittore Antonin Artaud (1896-1948). Vincent era un visionario fin troppo consapevole della vita, della realtà, perché dotato «di quella superiore lucidità che consente […] di vedere infinitamente e pericolosamente oltre il reale». E difatti, anche in questo dipinto lo sfondo azzurro, spirituale e cosmico, pare muoversi d’un moto ondoso, instabile e gorgogliante, che lo stesso artista produce e in cui sembra volersi abbandonare. «Dietro la testa, invece di definire il muro banale del meschino appartamento, dipingo l’infinito»: spiegò Vincent al fratello Theo. Un Infinito che, evidentemente, il pittore intravide dentro di sé.
Ok, ha puntato gli occhi su stesso ma da cosa lo percepisco? Che ha messo uno sfondo blu simile alla giacca.?
È ragionevole pensarlo. Sappiamo che Van Gogh si guardava allo specchio per autoritrarsi. E a differenza di altri autoritratti non si percepisce la ricerca dello sguardo dell’osservatore. Poi, l’arte non è una scelta esatta ma interpretazione.