Puoi ascoltare il mio podcast su: Apple Podcasts | Google Podcasts | Spotify | Cos'è?
Il XIX secolo, a partire dal decennio 1840-50, fu segnato da uno straordinario sviluppo della città. Tale fenomeno di modernizzazione urbana interessò prioritariamente le grandi metropoli europee, le capitali, i centri industriali e in particolare Parigi e Vienna. Si aprirono nuove e grandi strade, talvolta sacrificando interi quartieri di epoca medievale, si demolirono ampi tratti delle antiche mura, i centri storici furono ristrutturati.
Lo sviluppo del trasporto urbano a uso pubblico e l’estensione delle reti ferroviarie portò alla costruzione di nuove stazioni; furono creati parchi urbani e si progettarono nuovi quartieri in aree periferiche. Il fenomeno delle Esposizioni Universali costituì uno stimolo straordinario per lo sviluppo delle città ospitanti, costrette ad adeguare le proprie strutture per accogliere i milioni di visitatori, e offrì l’occasione di nuove stimolanti sperimentazioni architettoniche, che si espressero soprattutto nelle originali tipologie edilizie dei padiglioni espositivi. Materiali come il ferro e il vetro furono adottati per le costruzioni moderne, mentre negli Stati Uniti l’adozione del cemento armato portò alla nascita del grattacielo, che sarebbe diventato l’edificio principe del XX secolo in tutto l’Occidente
In tale contesto storico e culturale, le accademie faticarono a stare al passo; le sperimentazioni architettoniche degli artisti legati al culto della tradizione si risolsero spesso nel recupero di stili, motivi, soluzioni distributive del passato, talvolta combinati fra loro con l’intento di creare un nuovo senso di monumentalità. Tale fenomeno è noto come Eclettismo.
Anche l’Italia, finalmente unita dopo un secolo di guerre, allineò l’architettura agli influssi che venivano dall’estero, conferendo ai monumenti più rappresentativi una dignità europea. Importanti interventi urbanistici interessarono le città di Torino, Firenze e soprattutto Roma, eletta a nuova capitale del giovane Stato unitario.
Quando nel 1878 morì Vittorio Emanuele II, predecessore di Umberto, si decise di dedicargli a Roma un monumento grandioso. Il concorso internazionale fu bandito dopo due anni. La partecipazione degli architetti (che presentarono quasi trecento progetti) risultò numerosa ma poche e deludenti furono le idee. Nel 1882 si bandì nuovamente il concorso; nel frattempo era stata scelta l’area dell’intervento (l’altura settentrionale del colle capitolino sull’asse del Corso) e il tema dell’opera: una «statua equestre con fondo architettonico e opportune scalee». Il progetto vincente fu infine quello di Giuseppe Sacconi (1854-1905) che realizzò il suo Monumento a Vittorio Emanuele II, poi denominato Vittoriano, fra il 1885 e il 1911. Il linguaggio architettonico del Sacconi esplorava un classicismo rivisitato in chiave ellenizzante, contaminato da motivi neorinascimentali.
Il monumento è un esempio perfetto di Eclettismo italiano, in quanto risultato di una spregiudicata commistione di elementi, tratti dall’Altare di Pergamo e dal Santuario di Palestrina per la parte architettonica e dal Partenone e dall’Ara Pacis per la decorazione plastica. La statua equestre in bronzo, dedicata a Vittorio Emanuele II, venne ideata da Enrico Chiaradia nel 1889 e completata e posta in opera, alla morte di questi, da Emilio Gallori, tra il 1907 e il 1910.
Il Vittoriano include l’Altare della Patria, posto sulla sommità della scalinata d’ingresso e centro emblematico dell’edificio, con la scultura della Dea Roma, mostrata come un’Atena dea della sapienza, opera di Angelo Zanelli. L’Altare della Patria ospita, a sua volta, il Sacello del Milite Ignoto. Vi fu infatti sepolto, nel 1921, il corpo di un soldato italiano morto durante la Prima guerra mondiale, irriconoscibile a causa delle terribili ferite riportate.
L’Altare e il Sacello fanno del Vittoriano un tempio laico, oltre che un monumento simbolo dell’identità nazionale italiana. L’edificio, per questo motivo, è diventato luogo emblematico di celebrazioni e cerimonie pubbliche. In occasione dell’Anniversario della Liberazione d’Italia (25 aprile), della Festa della Repubblica italiana (2 giugno) e della Giornata dell’Unità Nazionale e delle Forze Armate (4 novembre), il Presidente della Repubblica e le massime cariche dello Stato depongono una corona d’alloro al Sacello del Milite Ignoto in memoria dei caduti e dei dispersi italiani in tutte le guerre.
Al suo interno, il Vittoriano dedica alcuni spazi espositivi alla storia d’Italia e accoglie il Museo del risorgimento.
Definito nel giorno della sua inaugurazione dall’allora presidente del Consiglio, Giovanni Giolitti (1842-1928), come un «marmoreo inno alla Patria, epopea scritta sopra pagine di marmo e di bronzo che sfidano i secoli», il Vittoriano è forse una delle opere meno amate dagli italiani; questo per la sua dimensione sproporzionata, per la sua vacua retorica, per l’ampollosità del suo impianto e per l’assoluto candore del suo marmo bresciano che stride con le morbide tinte degli edifici romani.
Tuttavia, questo edificio è da considerarsi, per certi versi, davvero emblematico. Pochi altri monumenti italiani del tardo Ottocento riescono a testimoniare così efficacemente il difficile tentativo di elaborare uno “stile unitario” per l’Italia finalmente unita. La sua retorica, così aspramente condannata, è la retorica stessa di una giovane nazione alla ricerca di una propria identità culturale, sociale e politica.
Coevo del Vittoriano è il progetto, altrettanto eclettico, del nuovo Palazzo di Giustizia di Roma (1888-1910), chiamato dai romani il Palazzaccio. Il concorso bandito per la sua realizzazione fu vinto dall’architetto perugino Guglielmo Calderini (1837-1916). Calderini aveva affrontato il problema dello “stile nazionale” fin dagli esordi della sua carriera. Nel progettare il palazzo, egli trasse ispirazione dall’architettura cinquecentesca e seicentesca dell’Italia settentrionale, fondendo (con sovrabbondanza di ornati) motivi manieristi e barocchi. La lunghezza trentennale del cantiere, tuttavia, favorì un progressivo aggiornamento che complica il linguaggio architettonico adottato, soprattutto alla luce dei nuovi influssi che provenivano dall’estero (anche dal fortunato eclettismo francese di Charles Garnier). Così, Calderini finì per articolare in maniera eccessiva la massa architettonica che ai tempi del concorso aveva così sobriamente impostato.
La letteratura storiografica italiana si è a lungo soffermata sull’eclettismo stilistico di cui sono protagonisti i monumenti realizzati in Italia sul finire del XIX secolo, giudicando l’architettura tardo ottocentesca del paese come il frutto capriccioso dell’accademia e definendola priva di originalità nazionale e di una precisa vena poetica. Ma, come ha scritto lo storico dell’architettura Franco Borsi, «occorre inquadrare questo eclettismo nell’ambito della linea storica liberale e nazionale e leggervi profonda l’istanza contro il dogmatismo stilistico e l’accademia neoclassica; e vedere come in Italia nel giro appena di una generazione avvenga il passaggio dal Neoclassicismo (che non fu fenomeno spontaneo né radicato profondamente a causa del permanere di una spontanea tradizione classica) all’Eclettismo, dal “canone” ellenizzante alla molteplicità degli esemplari, dal “corpus” dottrinale del bello e delle proporzioni alla libera evocazione del primitivo, dal dogmatismo dell’Accademia all’esasperazione individuale».
Nonostante i risultati formali spesso criticabili, insomma, l’Eclettismo italiano non può essere bollato come una stagnante palude ornamentale; esso rappresenta, invece, un difficile momento della storia dell’architettura italiana, segnato da profonde inquietudini e da vivaci polemiche. Gli architetti delle nuove generazioni si posero in conflitto con i vecchi notabili del Neoclassicismo, brandendo come arma polemica proprio il ricorso all’uso indifferenziato degli stili storici.
L’Eclettismo italiano fu, dunque, frutto di una polemica fra accademici e “innovatori”, anche se innovatori di nuove accademie, una polemica di stili contro stili, e quindi di imitazione contro imitazione. Agli eclettici italiani si deve riconoscere il merito di aver cercato un nuovo linguaggio che sapesse interpretare la realtà dei tempi; essi vollero allineare l’architettura del loro paese, finalmente unito, agli influssi che venivano dall’estero, conferendole una dignità europea.
Molto esaustivo. Grazie