Nel cuore pulsante di una Napoli caotica e vitale si trova una cappella austera e silenziosa, dove si entra rispettosi e quasi intimoriti. È la Cappella Sansevero. Un luogo carico di mistero, che si percepisce tangibilmente, perché non è solo un mausoleo nobiliare ma un vero e proprio tempio iniziatico, ricco di simbologie. Così lo volle il suo committente e ideatore: il massone Raimondo di Sangro, settimo principe di Sansevero. Fu a partire dagli anni Quaranta del Settecento che il principe incaricò un gruppo di artisti di rinnovare l’antica cappella cinquecentesca di famiglia, con l’intento di farne un luogo degno di celebrare la grandezza del suo casato. Giuseppe Sanmartino, Antonio Corradini, Francesco Queirolo e Francesco Celebrano ne fecero un luogo di struggente bellezza. Alle pareti, dieci statue di Virtù si alternano ai monumenti funebri dei principi e di altri importanti esponenti della casata, tra cui, ovviamente, lo stesso Raimondo di Sangro. Tali immagini delle Virtù rappresentano le tappe di un percorso spirituale, attraverso il quale l’uomo può perfezionarsi; il pavimento labirintico, invece, mostra quante difficoltà incontra l’uomo nel cammino che porta alla conoscenza.
Ma il visitatore ammutolito stenta a cogliere tali significati, attratto e rapito com’è dalla bellezza delle statue, tra le quali spiccano, per meravigliosa qualità di fattura, la Pudicizia di Antonio Corradini e il Disinganno di Francesco Queirolo. Poi ci si accosta, rispettosi, alla scultura posta al centro dell’ambiente, quella che lo qualifica più di tutte come un monumento funebre: lo splendido Cristo avvolto nella Sindone, noto come il Cristo velato, scolpito nel 1753 da Giuseppe Sanmartino (1720-1793).
Il corpo nudo del Redentore è disteso sopra un materasso con la testa appoggiata su due cuscini. Gesù è mirabilmente scolpito tanto da apparire reale, e l’effetto illusionistico del finissimo tessuto che lo ricopre è straordinario. Il sudario (un “velo d’acqua madreperlacea”, ha scritto Héctor Bianciotti) lo avvolge aderendovi come cera liquida e ne mostra in trasparenza il fisico smagrito e tuttavia atletico.
Le onde del tessuto lapideo si rincorrono tra pieghe e gorghi sino al centro del corpo, lasciando intravedere le curve delicate dei muscoli.
Il marmo scorre e defluisce anche sul volto oramai rasserenato dalla morte, mostrandone con discrezione i tratti gentili, che la brutalità delle torture non sembra aver intaccato.
In fondo, accanto ai piedi violati dal ferro dei chiodi, giacciono, abbandonati e oramai inutili, gli strumenti di tortura, tra cui la corona di spine, così dura nella puntuta acutezza degli aculei ma quasi sopraffatta dalla morbidezza del velo, che pare esondare come l’acqua di un fiume in piena, fino a travolgerla.
Sembra che il più grande scultore ottocentesco, Antonio Canova, che pure era il sostenitore di un classicismo purissimo, abbia ammirato talmente quest’opera da dirsi dispiaciuto di non averla scolpita lui.
Nino Migliori, grande fotografo bolognese di straordinarie capacità visionarie, ha dedicato al Cristo velato del Sanmartino una serie di scatti di grande suggestione, ottenuti illuminando l’opera alla sola luce delle candele. Grazie a questa operazione, l’arte sperimentale della fotografia contemporanea ha davvero potuto incontrare e abbracciare l’arte della scultura settecentesca.