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La violenta polemica anticlassica condotta nell’Ottocento dal Romanticismo ha codificato l’immagine del Neoclassicismo come di uno stile puramente imitativo, freddo, accademico e impersonale, viziato di archeologismo e posto fuori dalla storia. Per questo motivo, ancora oggi, il Neoclassicismo fatica ad incontrare l’amore del grande pubblico. Ma l’arte neoclassica, propostasi come produzione cosciente e razionale, può essere giudicata solo considerando la cultura che la generò.
La perfezione cui ambirono gli artisti neoclassici fu un concetto senza tempo, assolutamente destoricizzato; anche l’universalità dell’arte fu un’aspirazione del tutto consequenziale. «Cogliere il senso essenziale della classicità, la sua più intima qualità espressiva, indagando le leggi primarie di una bellezza intramontabile, tentandone un recupero puro e una trasposizione nell’epoca contemporanea: ecco l’intento di questo grande movimento di cultura e di arte», scrive lo storico dell’arte Mario De Micheli. Neoclassicismo e le sue teorie estetiche.
Il Neoclassicismo fu un grande movimento che segnò la seconda metà del Settecento e l’intera età napoleonica. Sebbene sia stato un fenomeno omogeneo, delimitarlo cronologicamente non è semplice; le date proposte, 1760-1815, sono di pura convenienza. Il termine, coniato nell’Ottocento, indica la ferma volontà di un gruppo di artisti e letterati di aprire una nuova stagione classica, che recuperasse i valori estetici dell’antichità opponendosi alle bizzarrie del Barocco e soprattutto del Rococò francese.
Non era la prima volta che l’antico veniva adottato come modello: si pensi per esempio al Rinascimento; e non era la prima volta che, seguendo l’insegnamento degli antichi, si tentava di creare un rapporto felice tra uomo e natura, di costruire una società migliore, guidata dal bello e controllata dalla morale. Tuttavia, questo classicismo settecentesco fu considerato “nuovo”. Esso, a differenza dei precedenti, fu metodico e coerente, per certi versi quasi radicale, e si pose, ben più del Rinascimento, il problema di una rigorosa teorizzazione. Non a caso, grazie al Neoclassicismo, nacque proprio nel Settecento l’estetica moderna.
L’estetica è una disciplina filosofica, o meglio un settore della filosofia, che intende stabilire “cos’è il bello”, attraverso l’elaborazione di un metodo d’indagine. Il termine nasce nel 1735 con il filosofo tedesco Alexander Gottlieb Baumgarten (1714-1762), che lo trasse dal greco antico àisthesis, che significa “sensazione” e fa riferimento alle informazioni ricevute attraverso i sensi. L’estetica è insomma la scienza della conoscenza sensibile. Neoclassicismo e le sue teorie estetiche.
Fu in un suo fondamentale trattato, Aesthetica del 1750, che Baumgarten indagò i temi della sensibilità, della poesia, del bello e dell’arte. È chiaro che l’estetica intesa come studio del Bello non nacque nel Settecento ma addirittura nel mondo classico, con la filosofia stessa. Fu tuttavia nel XVIII secolo che tale studio venne sistematizzato, diventando disciplina, e che il Bello venne trattato come categoria a sé stante e con propri criteri di valore.
Il Bello neoclassico fu connesso a un particolare significato di “natura”: «Con natura – affermava il pittore svizzero Johann Heinrich Füssli (1741-1825) – io intendo i princìpi generali e permanenti degli oggetti visibili, non sfigurati dall’accidente o guasti dalla malattia, non modificati dalla moda o dalle consuetudini locali. La natura è un’idea collettiva, e, benché la sua essenza esista in ogni individuo della specie, non può mai, nella sua perfezione, risiedere in un singolo oggetto». Neoclassicismo e le sue teorie estetiche.
L’artista, secondo Füssli, doveva ricercare forme ideali, sondando verità eternamente valide, indipendenti dalle superficiali diversità riscontrabili nel mondo naturale. Scriveva il pittore e teorico dell’arte tedesco Anton Raphael Mengs (1728-1779): «con l’ideale intendo ciò che si vede solo con l’immaginazione, e non con gli occhi; così un ideale in pittura si fonda sulla selezione delle cose più belle di natura purificate da ogni imperfezione».
In altri termini, la natura è bella, ma la sua bellezza è relativa; se l’arte vuole celebrare la vera bellezza, quella assoluta, universale, riconosciuta da tutti, deve andare oltre ciò che gli occhi vedono. L’artista aveva dunque un compito assai impegnativo: purificare la natura da ogni difetto e rendere la sua bellezza perfetta, e come tale ideale.
Per elevarsi al di sopra di ciò che è accidentale e transitorio, l’artista doveva studiare la natura ma anche le opere in cui quell’auspicata «selezione» era stata già compiuta: «La ricerca di questa forma, lo ammetto, è faticosa – osservava Sir Joshua Reynolds – e conosco un solo metodo per accorciare la strada: cioè uno studio attento degli scultori antichi, i quali, essendo infaticabili nello studio della natura, hanno lasciato dietro di sé modelli di quella perfetta forma, che preferirà come supremamente bella un artista che abbia passato tutta la vita in quella sola contemplazione».
Questa auspicata “selezione”, insomma, era stata già compiuta dai Greci, che avevano impiegato secoli per capire come costruire delle forme perfette. L’apparente dicotomia fra Natura e Ideale fu insomma risolta con l’interpretazione naturalistica dell’arte classica, divenuta essa stessa la forma più elevata e “più vera” di naturalismo. Neoclassicismo e le sue teorie estetiche.
Mengs, pittore e scrittore d’arte tedesco, autore dei Pensieri sulla bellezza, del 1762, fu attivo in patria, in Spagna e soprattutto in Italia, dove realizzò dipinti a soggetto mitologico e ritratti caratterizzati da un rigoroso equilibrio formale. Il suo capolavoro, il Parnaso, del 1760- 61, è considerato come un manifesto della nuova estetica, giacché vi si ritrovano molte idee espresse dagli artisti e dai teorici del primo Neoclassicismo.
L’affresco, realizzato a Roma nella villa del cardinale Alessandro Albani, oggi Villa Torlonia, è uno dei più espliciti tentativi neoclassici di creare razionalmente un capolavoro, sintetizzando il Parnaso di Raffaello, la pittura di Domenichino e Guido Reni, la scultura antica e gli affreschi scoperti a Ercolano e Pompei.
Le figure, come congelate nella loro assenza di emozioni, sono chiaramente modellate e disposte frontalmente e simmetricamente all’interno di uno schema ovale, in una fissità che le pone fuori dal tempo e le rende eterne. Al centro della composizione, che abbandona la prospettiva illusionistica barocca, il cardinal Albani è raffigurato come Apollo, protettore delle arti, circondato dalle nove Muse. La sua posizione richiama l’Apollo del Belvedere. Lo spazio è quasi privo di profondità e anche le forme delle figure sono definite dalla purezza della linea; le loro pose appaiono perfettamente calibrate e i loro atteggiamenti controllati. Solo due Muse stanno danzando, accompagnate dal morbido fluire dei loro panneggi: sono un’esplicita citazione delle Danzatrici dipinte nella Villa di Cicerone a Pompei. Neoclassicismo e le sue teorie estetiche.
Scrisse Johann Joachim Winckelmann (1717-1768), archeologo e storico dell’arte tedesco, considerato il principale teorico del Neoclassicismo: «l’unica via, per noi, per diventare grandi, e se possibile inimitabili, è l’imitazione degli antichi». Questo invito all’imitazione degli antichi è stato a lungo frainteso: Winckelmann non giunse mai alla teorizzazione della “copia”; egli esortò, infatti, a recuperare prima di tutto lo spirito, non la lettera dell’antichità. Se la semplice copia aveva un carattere servile, l’imitazione impegnava le più elevate facoltà dell’artista.
Lo storico tedesco rintracciò nell’arte greca un modello assoluto di bellezza ideale, caratterizzata da «una nobile semplicità e una quieta grandezza». Egli propose il Neoclassicismo non solo come codice stilistico ma come visione globale dell’uomo e della natura, come l’espressione della fiducia nella possibilità di costruire un’esistenza in armonico rapporto con il creato. Non intese rivolgersi all’individuo del suo tempo ma a tutti gli uomini di tutti i tempi. La perfezione cui egli ambì fu un concetto senza tempo, assolutamente destoricizzato.
Secondo Winckelmann, le sculture greche non erano semplici reperti archeologici: esse dimostravano che l’uomo può fare cose grandiose e che la sua superiorità viene espressa dalla sua immaginazione e dal suo intelletto. Il mondo greco, trasformato nel simbolo della perfezione umana, nell’idea cui rifarsi per raggiungere l’armonia cosmica, divenne per lui una grande metafora laica della vita, della sua ricchezza e del suo equilibrio con la natura; non a caso, d’altro canto, egli credette fermamente che l’idea classica della bellezza si fosse affermata nella Grecia antica in conseguenza della sua politica democratica e della felice condizione climatica, dunque a causa del perfetto equilibrio fra società e ambiente.
Winckelmann si era trasferito a Roma nel 1755 dopo la sua conversione al cattolicesimo; nella città papale fu assunto come bibliotecario del cardinale Alessandro Albani, grande collezionista d’arte, e fu poi nominato Sovrintendente ai Monumenti Antichi, carica che gli consentì di entrare in contatto con i più autorevoli intellettuali d’Europa. Studiò i monumenti di Paestum e visitò numerose volte gli scavi di Pompei ed Ercolano, contribuendo a divulgarne le scoperte.
Attraverso le sue opere (ricordiamo in particolare le Considerazioni sull’imitazione delle opere greche in pittura e scultura, del 1754, i Pensieri sull’imitazione, del 1755, e la Storia dell’arte nell’antichità, del 1764), Winckelmann fornì un contributo fondamentale alla formazione del gusto neoclassico.
Anche se non si recò mai in Grecia e studiò solo copie romane, scambiandole per originali ellenici, Winckelmann fu il primo a distinguere nettamente la storia dell’arte greca da quella romana, prima confuse nell’unica definizione di “antiche”, identificando uno “stile primitivo” (quello che oggi chiamiamo arcaico), uno “stile grandioso” rappresentato dall’arte di Fidia, uno “stile bello” incarnato dalle opere di Prassìtele e Lisippo, e infine uno “stile di imitazione” (l’Ellenismo), che perdurò sino alla caduta dell’Impero romano.
Fu la scultura a occupare un ruolo primario nella teorizzazione di Winckelmann. In essa, individuò l’espressione artistica con la quale i Greci avevano saputo realizzare il proprio ideale di bellezza nella sua forma più alta. Fu allora in questo campo che la proposizione del modello classico si fece sentire in maniera determinante.
Fu all’Apollo del Belvedere, una scultura del IV sec. a.C. conservata in Vaticano e già grandemente apprezzata nel Rinascimento, che Winckelmann dedicò le sue pagine più liriche: «Per comprendere questo capolavoro si deve scandagliare le bellezze intellettuali e divenire, se possibile, un divino creatore: poiché in esso non c’è nulla di mortale, nulla che sia soggetto ai bisogni umani.
Questo corpo, non segnato da alcuna vena, non mosso da alcun nervo, è animato da uno spirito celeste che fluisce come un dolce vapore in ogni sua parte […]. Come i morbidi viticci della vite, i suoi bei capelli fluiscono intorno al capo, come gentilmente accarezzati dal soffio dello zeffiro. Essi sembrano profumati dell’essenza degli dèi e acconciati con tenera cura dalle mani delle Grazie». Mai opera d’arte era stata descritta con tanta enfasi e poeticità.
Nei secoli precedenti non erano mancate opere critico-letterarie sui monumenti antichi ma Winckelmann scrisse i suoi testi partendo dal punto di vista di un filosofo teorico e con l’impegno appassionato di un uomo di sentimento. Secondo Winckelmann, le statue antiche non erano le reliquie di una civiltà passata ma opere vive, che incarnavano lo spirito greco e che pertanto potevano destare l’interesse degli uomini di tutti i tempi. Egli, dunque, insegnò ai suoi contemporanei a guardare con occhi nuovi non solo le opere d’arte classiche ma l’intera civiltà ellenica.
Winckelmann, inoltre, non si limitò a suggerire regole e norme per fissare i nuovi canoni neoclassici, ma invitò il pubblico a emozionarsi davanti alle opere dell’antichità, ad accendere il proprio spirito di fronte alla bellezza, considerata come salvifica per l’uomo e per la sua esistenza nel mondo. Soprattutto, lo spinse a identificare il Bello con il Buono, l’ideale estetico con quello etico e politico. Anche la storia greca e romana fu adottata a modello, potendo fornire esempi edificanti di comportamenti nobili, efficaci pietre di paragone morali per il pubblico contemporaneo.
La predilezione di Winckelmann per la scultura, e la mancanza di modelli pittorici cui fare riferimento, fecero sì che la base dell’insegnamento accademico fu lo studio dei gessi tratti dalle sculture antiche. Si deve dire, tuttavia, che gli scultori neoclassici conoscevano ben pochi originali greci: le statue “antiche” a loro disposizione, incluso il celebratissimo Apollo del Belvedere, erano in genere copie romane di originali ellenici.
La conoscenza dei grandi capolavori dell’arte greca fu piuttosto tarda e soprattutto frammentaria; per esempio, i marmi fidiaci del Partenone furono portati a Londra da Lord Elgin, ed esposti al British Museum, solo nel 1816. Altre opere furono poi fraintese e addirittura sottoposte ad antistoriche operazioni di restauro. Le statue arcaiche del Tempio di Egìna, acquistate nel 1812 da Luigi di Baviera, furono completate e integrate dallo scultore neoclassico danese Bertel Thorvaldsen (1770-1844), che le reinterpretò piuttosto liberamente, alla luce delle proprie concezioni estetiche.
Si deve inoltre a Winckelmann uno dei più grandi equivoci della storia dell’arte antica: quello per cui le statue di marmo greche e romane erano tutte bianche. Invece, nel mondo antico, il marmo delle sculture non era bianco ma presentava una gamma di colori inimmaginabili ai nostri occhi, educati all’idea che il bello ideale è candido. Winckelmann aveva un’idea platonica della scultura antica, che lo portava a sminuire il valore del colore. Scrisse infatti nella sua Storia dell’arte dell’antichità: «Il colore contribuisce alla bellezza, ma non è la bellezza, bensì esso mette soprattutto in risalto questa e le sue forme.
Ma poiché il colore bianco è quello che respinge la maggior parte dei raggi luminosi e che quindi si rende più percepibile, un bel corpo sarà allora tanto più bello quanto più è bianco, e quando è nudo sembrerà più grande di quanto è effettivamente». E ancora, nelle sue Osservazioni sulla storia dell’arte dell’antichità, ribadì che «il colore dovrebbe avere una parte minore nella considerazione della bellezza, perché non è questo, ma la struttura che ne costituisce l’essenza». Lo studioso tedesco conosceva bene alcuni casi di sculture policrome, ma considerava, erroneamente, l’uso del colore come un segno di “immaturità” o di “decadenza” dell’arte antica, e lo confinava ai margini della classicità, cioè all’arcaismo e alla tarda antichità.
Essenziale,bel lavoro,sintetico per allievi soprattutto nel linguaggio usato.Scorrevole e non troppo elaborato