Puoi ascoltare il mio podcast su: Apple Podcasts | Google Podcasts | Spotify | Cos'è?
Il Pulpito di Sant’Andrea a Pistoia è un’opera dello scultore toscano Giovanni Pisano (1248 ca.-1315 ca.), figlio di Nicola Pisano, a sua volta artista. La commissione per questo pulpito arrivò nel 1298. A differenza di quello realizzato circa quarant’anni prima da Nicola a Pisa, il pulpito pistoiese è compiutamente gotico sia per l’ispirazione sia per il linguaggio.
L’impianto esagonale di quest’opera, firmata da Giovanni, fu palesemente ispirato da quello del precedente pulpito paterno di Pisa. Anche in questo caso la struttura è sostenuta da sette colonne (sei ai vertici e una centrale), due delle quali sorrette da leoni stilofori e una da un telamone.
Uno dei leoni sta azzannando un cavallo, l’altro, che in realtà è una leonessa, allatta i suoi cuccioli. Il telamone è Adamo, piegato dal peso della colonna come ogni uomo dal peso dei suoi peccati. La colonna centrale è sostenuta da un gruppo scultoreo che comprende un’aquila, un leone alato e un grifone.
Giovanni volle intraprendere un percorso parallelo e autonomo rispetto a quello classicistico di Nicola: snellì l’architettura, rese più acuti gli archi, lasciò emergere le figure, accentuò le tensioni. La sua vocazione gotica trovò respiro soprattutto nelle cinque lastre scolpite, dove l’artista poté liberare la propria ispirazione. I rilievi con la Natività, l’Adorazione dei Magi, la Strage degli Innocenti, la Crocifissione e il Giudizio Universale, separati fra loro da grandi figure angolari a tutto tondo, sono infatti animati da una espressività portentosa, appena addolcita da accenti di struggente malinconia.
In una sola lastra, quella della Natività, troviamo riuniti tre episodi che affrontano il mistero dell’Incarnazione: l’Annunciazione, la Natività, l’Annuncio ai pastori.
L’angelo, che irrompe per annunciare alla Vergine la prossima maternità, spaventa così tanto la donna che questa, istintivamente, tenta di coprirsi il volto con il manto. Il colloquio tra la futura madre di Dio e il gentile, ma risoluto, messaggero celeste è soprannaturale; la reazione di Maria è tuttavia umanissima. Nessun altro artista gotico fu tanto abile, forse neppure Giotto riuscì mai a raccontare con tale sensibilità un momento così delicato.
Subito a destra, ritroviamo la Madonna che, stremata dal parto, si alza appoggiandosi a un gomito per coprire il bambino addormentato. È un gesto di grande tenerezza e di straordinaria spontaneità. Il dettaglio in basso della scena mostra l’episodio (non descritto dai Vangeli ma assai comune nell’arte medievale) del Lavaggio del Bambino.
Nella lastra con la Strage degli Innocenti, una delle più intense, le madri urlano disperate sui cadaveri dei loro bambini, assassinati dai soldati senza il minimo accenno di compassione: è lo spettacolo incomprensibile di ogni guerra, così realistico da proiettare quella scena dalla storia alla cronaca.
Per Giovanni Pisano, il ritorno all’antico si tradusse in una ricerca che andò ben oltre l’evocazione dei modelli classici proposta da suo padre. Risulta quanto mai evidente confrontando due opere, con lo stesso soggetto, realizzate da padre e figlio a distanza di oltre trent’anni una dall’altra.
Si tratta della Crocifissione di Nicola per il Pulpito del Battistero di Pisa e della Crocifissione di Giovanni per il pulpito di Pistoia. Nella Crocifissione di Nicola, Cristo è monumentale e magnifico, e vanta una fisicità sicura e vigorosa. In tal senso, è compiutamente, consapevolmente classicistico. Cogliamo, nella scena, anche una certa accentuazione patetica, per esempio nella flessione un po’ esasperata della Vergine svenuta. In questo caso, un moderato superamento dei canoni classici parve necessario a Nicola per colpire emotivamente e turbare il fedele.
Di ben altra carica emozionale è invece dotata la Crocifissione di Giovanni. Nella sua prova, il corpo del Messia non è semplicemente crocifisso: sembra che il Redentore spalanchi le braccia con tale forza e violenza da aprire in due la folla, come Mosè fece con le acque del Mar Rosso, già prefigurando la drammatica separazione dei giusti dai reprobi nel giudizio finale.
Ai piedi e ai lati della croce si consuma la tragedia: a destra gli ebrei franano come massi da un ripido pendio, trascinati dalla loro terribile colpa; a sinistra, la Madre è fulminata dal dolore e crolla all’indietro, afferrata appena in tempo dalle pie donne. Una forma di drammatizzazione efficacissima e, riconosciamolo, estremamente moderna.
Una carica emotiva altrettanto potente è contenuta nella scena con il Giudizio Universale. Cristo è mostrato in alto al centro, seduto sul trono, con le stimmate bene in mostra. Lo affianca il suo tribunale, costituito dagli apostoli mostrati mentre discutono fra di loro con gesti concitati. La sua mano destra, tesa ad accogliere gli eletti, sembra voler stringere quella di Maria, incoronata Regina del Cielo.
La Vergine guida un piccolo corteo di beati, pronti ad entrare in Paradiso, e fra loro riconosciamo un vescovo e un frate. Più in basso, due angeli tengono la croce di Cristo e la mostrano ai resuscitati dai morti, i quali, nudi o semivestiti, stanno uscendo dai propri sepolcri. La mano sinistra di Gesù, come voleva l’iconografia del soggetto, condanna i reprobi all’eterno supplizio. I dannati vengono precipitati all’Inferno, dove Satana, mostruoso, li attende, pronto a stritolarli. Un’ampia casistica di gesti, tra cui quello delle mani portate al volto, esprime tutto il loro tormento e la loro disperazione.
Nicola aveva fatto del proprio pulpito pisano un’opera colta e dottrinaria, l’interpretazione visiva di un pensiero teologico; Giovanni, scolpendo i suoi bassorilievi, espresse il proprio sentimento del mondo. Le sue storie sono una riflessione amara, dolorosa, a tratti persino disperata sulla vita dell’uomo. In tal senso, l’opera di Giovanni acquista caratteri di universalità; il dramma che egli racconta è il dramma di tutti: l’ingiustizia, la violenza, l’orrore che impietosamente disegna sono veri, ineluttabili, quindi sempre attuali.
Con grande coerenza, Giovanni Pisano scelse un linguaggio molto lontano da quello classicamente composto del padre, adottando uno stile aspro, duro, violento, che giungeva persino a ignorare le proporzioni, piegate alle esigenze dell’efficacia emotiva. In tutte le scene, composte per direttrici incrociate, cariche di moto, piene di figure concitate, brulicanti di gesti, ogni magnifico particolare racconta da solo di una vita, di un destino. In questo, certamente, riconosciamo l’origine di un fascino che non cenna ad affievolirsi e che rende quest’opera uno dei più grandi capolavori del nostro Medioevo e di tutta la storia dell’arte.
Articolo precedente Prossimo articolo